giovedì 31 dicembre 2009

MdD(abo) #1: the new pornographers - twin cinema (2005)


Quadretto emotivo: si rotola lungo un lieve declivio erboso, sotto un cielo azzurro e luminoso, ridendo spensierati, mentre qua e là paffute pecorelle prendono il sole, e uccellini variopinti cinguettano la loro allegria, e lontano le campane del paese battono a festa, e da qualche sparuta nuvoletta bianca e cicciottella cori di puttini intonano le canzoni di Twin Cinema...ehm, no...forse sarebbe bene mantenere un maggior distacco, nel parlare di questo disco. E allora ecco qualche richiamo stilistico: Beatles, XTC, Prefab Sprout, B52s, Supertramp, Waterboys, Blur, Pogues, Felt, Microdisney, Rem, Madness, Bowie à la Ziggy, Joan Baez... ancora troppo, eh? Ok, allora ecco qualche accenno tecnico: due chitarre, pianoforte, basso e batteria, voce maschile e voce femminile, un bel suono live, doppie voci, controcanti e coretti a profusione, arrangiamenti semplici, melodie aperte e articolate su armonie generose, strutture mai pigre, beat in un lineare quattro quarti, oppure ternari, oppure scherzosi e irregolari (come in Jackie Dressed In Cobra, o in The Jessica Numbers). La terza prova del gruppo canadese si traduce in quattordici canzoni, molte grandi, alcune splendide. Pop magistrale, colorato di folk o di rock vecchio stile, con ritornelli memorabili (Sing Me Spanish Techno, Use It, Twin Cinema), finali epocali alla Hey Jude (The Bleeding Heart Snow), anthem folk (Broken Breads), cavalcate sixties (Star Bodies) e...uff, basta, tanto non lo posso nascondere: per me questo disco è indimenticabile.

MdD(abo) #2: patrick wolf - the magic positions (2007)


Questo era il terzo album per il ventiseienne londinese Patrick Wolf, probabilmente quello della maturità raggiunta. E con questo non si vuole togliere nulla ai due splendidi precedenti (Lycanthropy e Wind In The Wires), né al nuovo album del 2009 (The Bachelor) quanto esaltare vieppiù questo davvero magico The Magic Positions (qui la title-track), in cui tutti gli impulsi disseminati lungo il tragitto già percorso vengono razionalizzati in una produzione pressochè perfetta. Qui la dialettica priviliegiata tra le timbriche acustiche (archi, pianoforte e chitarra) e un'elettronica sempre meno lo-fi assume definitivamente cittadinanza nel linguaggio del nuovo cantautorato britannico. Spesso i due mondi viaggiano paralleli, creando quel destabilizzante amalgama tra colorito folk e minimalismo digitale (i risultati sono spesso stupefacenti, come in The Stars, o Accident & Emergency). Altre volte il nostro menestrello (sorry Marco, ma per lui mi viene proprio da usare 'sto termine ^^) si abbandona a retaggi più classici ed intimisti, come in Magpie (cantata con Marianne Faithfull) e nella deliziosa e ternaria Augustine. In genere, comunque, la pulizia della scrittura melodica si lascia esaltare dagli arrangiamenti sobri e curatissimi. Ottima scelta, che guida l'attenzione su un talento compositivo tra i migliori del pop colto contemporaneo. E usare il termine pop non è sbagliato, in quanto The Magic Positions è tutto sommato assai comunicativo, e il suo romanticismo non scivola mai in pathos eccessivo. Tutto questo, alla fine, unito alla timbrica vocale e all'espressività recitativa, non fa che accentuare la sensazione di trovarsi di fronte ad un felice ibrido tra l'Aztec Camera Roddy Frames e il Waterboy Mike Scott. Quasi un Jazz Butcher del nuovo millennio, ancorchè certo meno ironico e assai più barocco...beh, sì, certo, perché neppure il giovine Patrick si sottrae alla reminiscenza dei favolosi anni ottanta.
Fatto sta che l'adolescente folle e geniale, che racimolava i primi soldini suonando per strada il violino, adesso è un principino sicuro di sè e tuttavia adorabile, e volteggia nell'aria baciato da grazia perenne.

MdD(abo) #3: sondre lerche - phantom punch (2007)


Ventisett'anni, una sfavillante carriera in corso, il norvegese Sondre Lerche da Bergen pubblica con Phantom Punch il quarto gioiello della sua invidiabile discografia. Talento indiscutibile, facilità di scrittura musicale impressionante, Sondre ha già praticato con successo vari stili, dal pop bacharachiano degli esordi a quel The Duper Session che ha alloggiato per mesi nelle classifiche jazz di Billboard. Con Phantom Punch, ennesimo cambio di pelle, e immersione in un magico e sapiente indie-rock che ammicca con classe stupefacente al mainstream senza cadere nell'ovvio. Potentemente beatlesiano nella libertà creativa, Phantom Punch porta con sè bacilli di un ventennio di pop-rock , colorandosi di Paul Weller e Prefab Sprout, di Beck e Smiths, e mantenendo comunque piccoli fuochi di Steely Dan e Tom Jobim. Prodotto da Tony Hoffer (già con Beck, Belle & Sebastian, Phoenix) l'album è vivace e puntuto, energico e sapido nei suoni, brillantemente chitarristico come elezione d'arrangiamenti, ricco di dinamiche e sensibile nelle sfumature. Tra le undici tracce si ascoltano davvero alcune gemme che rimarranno nell'album dei ricordi, a confermare l'esplosività compositiva del giovanotto fatato. Say It All sillaba tra controtempo stylecounciliani prima di librarsi in un ritornello da lodeallavita che si ascolterebbe per minuti interi, Face The Blood corre d'impeto come un anthem british che molte delle nuove bandelsecolo da nme vorrebbero saper scrivere, John Let Me Go si lascia intonare con la leggerezza disincantata di una canzoncina anni sessanta, la strofa di Well Well Well brasilianeggia su un fiorito tappeto di ride, Tragic Mirror nel suo crudo chitarra e voce fiorisce nel miglior stile costelliano, e per parlar di ballad, la conclusiva Happy Birthday Girl lievita in un limbo psichedelico quasi commovente.
Che dire d'altro? Piccolo capolavoro di un giovane genio operoso.

Ps
la title-track.

MdD(abo) #4: guillemots - through the windowpane


Ne ho parlato giusto qui ^^.

MdD(abo) #5: nathan fake - drowning in a sea of love


In questo caso: elettronica! Qualcuno dice anche magari indietronica, per segnalare il fatto che l'estetica del giovinotto di Norfolk non sia così mainstream, ed anzi il suo gusto riveli attitudine ad una sapida sperimentazione. Tra trance e ambient, si tratta comunque di 11 tracce esclusivamente strumentali che, nonostante alcuni picchi formidabili (The Sky Was Pink, You Are Here) formano l'ipnotica colonna sonora di un viaggio via da qui, attuabile anche senza altro doping sinaptico.
L'ho usato molto, questo dischetto. E sempre con soddisfazione.

MdD(abo) #6: sigur ros - takk...


Probabilmente si tratta dell'album più solare e facile, tra quelli degli islandesini, e forse non è un caso che sia il primo ad essere prodotto per una major. Tuttavia questo è il loro disco che ho ascoltato di più e che ho amato di più e all'amor non si comanda. Soggiogato come sempre da impasti sinfonici che anche alla veneranda età di 42 anni continuano a suggerirmi l'esistenza di un mondo trascendente (chimera altrimenti obnubilata dalla prosaica quotidianità), irretito dalle armonie ammalianti, dalle voci eteree, dai suoni scampanellanti, non posso che piazzare Takk tra i top del decennio. E soprattutto innalzare la terza traccia (Hoppipolla) al numero uno dei miei ascolti preferiti in assoluto (persino più del secondo tempo del Concerto in sol maggiore per pianoforte e orchestra di Ravel ^^). Amen.

Ps
Ecco Hoppipolla, magno cum gaudio meo.

MdD(abo) #7: animal collective - feels


Per lo stesso motivo per cui Luca li ama (vedi qua).
Solo che io ho ascoltato molto di più questo.

Ps
Esempio.

mercoledì 30 dicembre 2009

MdD(abo) #8: thou shalt not - land dispute (2006)


Mamma mia, che verve. Il quarto disco di questi misconosciuti Thou Shalt Not suona ingombrante e quasi prosopopeico, e nonostante ciò cattura per la gamma infinita di idee e spunti creativi. Alex Reed e i suoi due polivalenti soci ammettono forti simpatie per il goth-world di vent'anni fa, e certo gli impulsi wave emergono qua e là inconfondibili, ma Land Dispute è un luna park caleidoscopico dall'inventiva addirittura deflagrante.
Approccio rock ed elettronica si incontrano e disturbano vicendevolmente, nel calderone. Il drumming ridondante e invadente, che conduce le danze con profluvio di timpani e tom, viene squarciato da lamate di synth grossolani, chitarroni e chitarrine, e la voce canta a raffica con timbrica fresca e piglio drammatico. Lo stile è contaminato da decine di rimandi felicemente interiorizzati (da Ultravox ad A-ha, ma niente paura...) e se le canzoni spesso suonano prorompenti ed entusiastiche (come l'ineffabile When I Crash) non si possono trascurare due o tre ballad con pianoforte o acustica davvero deliziose
(Let Your Silence Sing è da brividini). E quando si è arrivati quasi in fondo si tocca il vertice con True Love, dove i Muse stringono la mano a Kurt Weill e si resta di stucco.
Insomma, sessanta minuti di romanticismo sturmunddranghiano e logorroico.

Ps
Ecco una folle salottiera versione one man band di True Love.

MdD(abo) #9: working for a nuclear free city - id. (2006)


Playlist perfetta per un dancefloor fluttuante nello spazio psichedelico, l'esordio del quartetto di Manchester proietta un vero e proprio arcobaleno di rimandi stilistici legati agli ultimi vent'anni. La base è quel madchester sound ecstatico che scaturì dai primi impulsi dell'elettronica di Detroit, unita al gusto per i muri sonori propri dello shoegaze britannico post Jesus&Mary Chain (shoegaze=sguardo fisso alle scarpe=chitarristi che danzano tra decine di pedalini per effetti). Si passa poi per la gruveria grassa e i bassi ciclici da primi Chemical Brothers (Innocence, Troubled Song, Dead Fingers Talking) e ci si immerge in un ambient lisergico à la Helios (Pixelated Birds, The 224th Day). E poi ancora si spargono scintille di Charlatans, Primal Scream, Spiritualized. E neppure manca la ballatina da un minuto e mezzo che si abbozza a casa dopo due notti passate al rave (Home, splendente). La voce galleggia eterea e confusa nel morbido magma sonoro. E così ecco alla fine un caleidoscopio onirico per nightclubbers intimisti che non rivela nulla di nuovo, ma che assemblato in questo modo fa quasi gridare ad un miracoloso colpo di genio, e contribuisce a rivitalizzare la scena indietronica dell'ultimo periodo. Dolci, dolcissime pulsazioni e messaggi d'amore sconfinato.

Ps
Ecco una traccia rappresentativa del loro mood. Il pezzo non è però di quest'album.

MdD(abo) #10: I love you but I chosen darkness - fear is on our side (2006)


La macchina del tempo ha avuto molto lavoro, in questo decennio: autobus carichi di giovanotti in gita a visitare le polverose decadenze del post-punk di quasi trent’anni fa. E i ragazzi ne sono tornati spesso affascinati e coinvolti, pronti a sfornare la loro versione dei fatti in compiti in classe calligrafici e a volte persino ispirati. Il primo album (dopo un paio di EP) del quintetto di Austin, Texas, è però qualcosa di più di un compitino ben riuscito. Fear Is On Our Side pare un disco davvero scritto venticinque anni fa, una piccola perla di oscuro romanticismo che non stupirebbe vedere infilata accanto ai vinili dei Joy Division, dei Bauhaus, dei primi Cure. Nessun facile richiamo a stilemi di maniera, ma piuttosto adesione appassionata al languore malinconico di chi quelle emozioni le ha vissute in tempo reale. Sorprendente (vieppiù considerando la provenienza texana :P). Nessuno sdilinquimento, inoltre, né sbrodolante autocompassione tardoadolescenziale, ma sapiente uso di distorsioni (chitarra e basso), riff illuminanti e ritornelli a squarciagola. Il suono è quello, batteria e basso pulsanti e slabbrati il giusto, chitarre che si incastrano tra delay, flanger ed eco, tastiere paddose e suggestive. La linea vocale è spesso doppia, sia quando si snoda sussurata, sia quando si apre in melodie a note lunghe. E poi, beh, le canzoni. Ci sono. If It Was Me è l’immersione in un oceano nero punteggiato da qualche medusa fosforescente, Lights snida da un angolo di dolore e accompagna a fare una passeggiata all’aperto, The Ghost è un’ alba tagliente e spaesata. O almeno così direbbe il poeta. E comunque tra bordoni psichedelici, limpidi arpeggi, robuste pulsazioni in ottavi e sonore pacche di rullante, è proprio il clima ciò che più ammalia di questo romantico e cupo disincanto darkwave. Ti amo ma ho scelto l’oscurità, appunto.

PS
Non molte tracce su youtube. Questa è una.

La top ten, accidenti...

...presto, presto!...prima che scocchi la mezzanotte dell'ultima notte del DECENNIO debbo gioco forza appiopparvi la mia lista dei dischi del DECENNIO!...e comunque è giusto ricordare, benchè sia ovvio, che questi non sono certo i dischi del DECENNIO in senso assoluto, e neppure i miei dischi del DECENNIO (probabilmente ne avrei amati altri anche più di questi, se mi fosse capitato di ascoltarli), quanto piuttosto i dischi di questo DECENNIO che io ho ascoltato di più (ascoltato volontariamente, beninteso).

Ecco dunque la top ten in sintesi:

1) NEW PORNOGRAPHERS -"Twin Cinema"
2) PATRICK WOLF - "The Magic Position"
3) SONDRE LERCHE - "Phantom Punch"
4) GUILLEMOTS - "Through the Windowpane"

La predilezione per questi 4 dischi è dovuta soprattutto alla presenza di belle canzoni, o se si preferisce, di canzoni ben scritte e spesso ispirate.
La canzone pop, nella sua forma più o meno standard (strofe, ritornelli, eventuali special) è una vera e propria forma musicale (come lo sono la sonata o la sinfonia, per dire) e quindi mi attrae duplicemente: per la intrinseca capacità, propria della musica stessa, di comunicare emozioni, ma anche per l'abilità che l'autore mette in evidenza nello scriverla.

Ed ecco il resto della top ten:

5) NATHAN FAKE - "Drowning in a Sea of Love"
6) SIGUR ROS - "Takk..."
7) ANIMAL COLLECTIVE - "Feels"
8) THOU SHALT NOT - "Land Dispute"
9) WORKING FOR A NUCLEAR FREE CITY - "id."
10) I LOVE YOU BUT I CHOSEN DARKNESS - "Fear is on our Side"

E qui perlopiù ho goduto di bellezza e basta, di gradite trovate, di atmosfere, di sorprese, di reminiscenze amorevoli e quindi di sentimento.
Voilà.
Buon anno.

sabato 26 dicembre 2009

MdD #9 (Marco), Chumbawamba, The Boy Bands Have Won


Poliedrici, anarchici, antagonisti, i Chumbawamba restano per molti il gruppo di Tubthumper, Top of the world, Amnesia e compagnia bella. Ritmiche possenti, grande uso di elettronica cattiva per ritornelli immediati e persistenti. Ma i Chumba sono (stati) ben altro, dalle esecuzioni a cappella di English Rebel Songs al quasi country di Slap!, al power pop di WYSIWYG. Ridottisi a quintetto, uscito soprattutto Danbert Nobacon, i Chumba sembrerebbero aver semplicemente tirato i remi in barca ed imbracciato una svolta musicalmente moderata. Non è così, se gli strumenti sono acustici la rabbia, la delusione continuano a pulsare forte e con "The boy bands have won" i Chumba sfornano un disco che è molto di più di una tappa della variegata carriera musicale. Già dal titolo è chiaro che è un'amara riflessione sul mondo di oggi, musicale e non, sui disvalori dominanti, su come una generazione battagliera ha perso mentre a vincere sono le politicamente quiete boy bands. Musicalmente il disco dimostra il valore assoluto dei Chumba a fare canzoni, a sfornare melodie che ti si attaccano immediatamente alle orecchie, questa volta senza campionatori, distorsori o altre macchine. In alcuni casi ("El Fusilado", "Words can save us") senza niente, voci e mani, e basta. Quasi cantautorali nella loro semplicità le canzoni scorrono via perfette, alcune di pochi secondi appena, scarne nella strumentazione e ricche negli arragiamenti vocali. I testi, come e più di sempre sono di raffinata intelligenza e spaziano su tutto lo scibile umano: dalla alienazione di Facebook ("Add me"), alle ingiustizie carcerarie ("Waiting for the bus", dedicata a Gary Tyler), dalla difesa dell'evoluzionismo darwiniano dagli attacchi dei creazionisti ("Charlie"), ai rivoluzionari diventati reazionari ("A Fine Career") dalla dura vita dei lavoratori occasionali ("Compliments of your waitress") al valore astratto della parola ("Word bomber", "Words can save us"). Un disco di rara intelligenza, ponderatissimo, amaro e quasi disperato nel suo abitare la sconfitta, che non a caso finisce non a caso con l'inquietante domanda "we know what we want, we know what we got, but do we need?". Personalmente, ho bisogno di dischi come questo.

venerdì 25 dicembre 2009

MdD #8 (Marco), SULUTUMANa, La danza


Sulutumana, in dialetto lecchese "sull'ottomana", ovvero sul divano. E ascoltando il cd per molti aspetti sembra davvero di essere seduti sul divano di una casa italiana. Come in un album di famiglia, si rivedono nella musica dei Sulutumana (loro hanno il vezzo di scriverlo tutto maiuscolo con l'ultima "a" minuscola, mah...) tante facce conosciute della cultura musicale italiana. Citazioni precise di Paolo Conte ("Il frigo"), echi di De Andrè ("Cussesumaiami"), De Gregori e Fossati, ma anche di musica bandistica e folk, il tutto dentro un album omogeneo, con una cifra stilistica chiara, di fattura assolutamente artigianale da parte di una formazione interessantissima, con 2 belle voci soliste, chitarra, violino, flauto, contrabbasso, pianoforte e batteria. Le composizioni sono tutte caratterizzate da un intenso lirismo, che fortunatamente sfugge all'atteggiamento compiaciuto di tanti aspiranti poeti. Da "Pomeriggio", piccola delizia scarabocchiata, alla title-track, col suo crescendo vorticoso, a "Viola", cantata in dialetto e forse il pezzo musicalmente più compiuto alla meravigliosa marcetta di "La vera storia di Marisa Pucheria", è tutto un caleidoscopio di musica suonata in punta di dita, senza una sbavatura, senza sudditanza agli stilemi imperanti, senza un eccesso, con una compostezza rara per un disco di esordio. Raffinati senza essere saccenti, poetici senza essere nè drammatici nè sdolcinati, i Sulutumana si votano da subito ad essere prodotto di nicchia, senza alcun appeal commerciale e senza alcuna chance di diventare icone. Come una vera bottega artigianale confezionano il loro prodotto con cura, devozione, e maestria, senza ostentazione, lasciando all'ascoltatore sia il gusto dell'ascolto che della percezione del processo creativo. E come per la bottega di un buon artigiano, chi ne conosce l'indirizzo poi ci torna sovente.

giovedì 24 dicembre 2009

MdD #7 (Marco), Emiliana Torrini, Fisherman's Woman


Emiliana, Emiliana, meravigliosa creatura. Che delicatezza, che sensibilità, quante sfumature di colore in quella voce eterea! Sono di parte? Sì, assolutamente sì, per cui non fidatevi, questa non è critica ma venerazione. Adoro Emiliana Torrini per la voce, ma non è solo per quello (ce n'è svariate nel mondo) che impazzisco. E' per i modi, per la ritrosia (quando è sul palco sembra quasi che si scusi di essere lì), per il suo esser anti-diva (confrontatela con la conterranea Bjork), per il coraggio insito nel fare al debutto covers di voci un po' più, ehm, affermate di lei (a 19 anni confrontarsi con Joni Mitchell, Stevie Wonder, Tom Waits, Lou Reed vuol dire avere, scusate la finezza, due palle tante). Dopo Merman, splendido esordio del decennio scorso (in cui alcune composizioni originali si mescolano a covers splendide di Chelsea Morning, I hope that I don't fall in love with you, Stephanie Says e altre) e dopo Love in the time of science, in cui volgeva al pop elettronico - da qui due meravigliose gemme, Tuna Fish e Unemployed in Summertime - ecco Fisherman's Woman, ecco un'altra svolta, questa volta acustica. Con alcuni musicisti talentuosi, la Torrini offre una serie di gemme delicatissime, la cui poetica intimista si rivela sia dagli arrangiamenti minimali sia da testi quasi gozzaniani nella loro semplicità disarmante ("the phones are off the music's on/nothing brings me down/home alone and happy/nothing brings me down"). L'atmosfera generale del disco è di delicatezza tutta femminile; che si parli di attesa del marito lontano - la title-track - o di amori persi (Today Has Been Ok, forse il momento più alto dell'album) o di vita vissuta (Heartstopper). Per la leggerezza, la leggiadra semplicità con cui la Torrini canta di tristezze e drammi interiori ricorda i compianti Nick Drake e Sandy Denny (e scusate se è poco), di cui peraltro esegue una bella cover, Next Time Around. Sempre in questo decennio è uscito un altro album ancora della Torrini, Me and Armini, bellissimo anch'esso, più eclettico, in cui compaiono percussioni in evidenza, strumenti elettrici e aggeggi elettronici. La racconteremo, ma è un altra storia.

MdD #6 (Marco) Ska-P, Que Corra La Voz!


E dopo tanta musica "seria" ecco un disco del caro vecchio rock, di quelli che ti spingono a dimenarti, a fingere di suonare una chitarra immaginaria ("the air guitar", dicono gli inglesi), a battere il tempo sul volante mentre si guida, di gridare a squarciagola i ritornelli. Gli Ska-P, formazione spagnola di ska-punk, giungono qui alla prova più matura. Partiti dallo ska sono progressivamente approdati ad un genere più ruvido, sempre con tanta rabbia e tante cose da dire contro le ingiustizie del mondo. Questo album è un distillato di punk, ska, heavy, reggae con alcuni solidi pezzi di solida musica che si stampano bene nelle orecchie. Sia nei momenti più rilassati e/o danzerecci ("Casposos", "McDollar") sia quando il gioco si fa duro ("Intifada", "Nino soldado", "Mis Colegas") il gioco funziona eccome. Anzi, è proprio nei momenti più ruvidi che si manifestano le ascendenze musicali degli Ska-P, decisamente emancipati dalla semplicità clashiana o dai Kortatu, cui spesso si richiamano, evoluti verso forme un po' più elaborate di canzone che possono richiamare i Damned o i Jam prima maniera. Occhio ai testi, sempre ricchi di significati, graffianti e puntuali come non mai. Ah, cari vecchi ruvidoni Ska-P, la militanza divertente

MdD #5 (Marco), Eleni Karaindrou, Trojan Women


Ok, questa è l'età. Questo è un disco che segnalo perchè ho varcato i 40, perchè passo i sabati sera in casa, perchè più passa il tempo più amo il silenzio. E diciamolo pure, questo album a 25 anni mi avrebbe annoiato a morte. Eleni Karaindrou è una compositrice greca, nota per le colonne sonore dei film di Anghelopoulos (Eternity and a Day, Ulysse's Gaze, The Beekeeper, The Weeping Meadow). E' anche la moglie di Antonis Antypas, regista teatrale, e proprio per un allestimento "casalingo" delle Troiane di Euripide, la Karaindrou ha composto quest'opera ricalcando nella struttura i canti delle tragedie greche. Abbiamo quindi cori, stasimi, canti di ingresso e di uscita del coro (parodoi ed exodoi). Insomma, non esattamente quello che c'era nei dischi dei Pearl Jam o degli UB 40.
L'approccio musicale della Karaindrou (che ha studiato etnomusicologia e si sente) è però molto ampio e moderno, usa abbondantemente strumenti non strettamente ellenici ma di origine turca o araba (il ney o il bendir) e compone melodie che nascono dalla musica folk greca, balcanica, mediorientale quasi a creare una "musica del mediterraneo del sud" e che poco devono alla musica classica in senso stretto. I testi sono ovviamente incomprensibili, il libretto ne offre una traduzione in inglese assolutamente inutile perchè i singoli brani convogliano a meraviglia il dolore e la disperazione delle donne e la profonda istanza anti-bellica di Euripide riverbera nella drammaticità della musica. Anche questo, come la Abbuehl, non un ascolto da autoradio ma da poltrona. Avere 40 anni vuole spesso dire figli, responsabilità, mutui, ma se vuol dire poter apprezzare album come questo, allora va benissimo.

Merry Christmas

Voglio andare a vivere a Tomara


No, ditemi, vi servono altre motivazioni?

MdD(luca) #1: Animal Collective – Merriweather Post Pavilion (2009)

Sono stato per un po’ dibattuto se assegnare il titolo di Migliore del Decennio a questo album o a Feels del 2005. Che il titolo andasse a loro, agli Animal Collective, non avevo dubbi: un modo di fare musica superlativo e almeno 5 album di fila senza una caduta di stile, sempre ad altissimi livelli, rendono questo gruppo il “mio gruppo preferito”. Poi per conto mio al top di questa mirabile serie ci sono appunto Feels e Merriweather Post Pavilion.
Alla fine ho optato per questo, semplicemente perché più maturo e raffinato, anche se un po’ di nostalgia per i ricami chitarristici di Josh "Deakin" Dibb non si può non provarla. I tre ‘sopravvissuti’ comunque hanno fatto di necessità virtù e si sono orientati verso un approccio più elettronico al loro multiforme psyhc-pop incrementando l’utilizzo di diavolerie elettroniche per costruire il suono. Noah “Panda Bear” Lennox aveva infatti appena fatto una significativa esperienza in questo senso con notevolissimo Person Pitch, per cui è stato in grado di prendere egregiamente le redini del progetto e realizzare quello che forse è il loro album migliore e meglio prodotto.
Pastiche elettronico, pop psichedelico, musica corale e fricchettona, gli Animal Collective si dimostrano definitivamente come i migliori interpreti di questo primo decennio del millennio con la sua fluida e rapidissima mutabilità, con le caleidoscopiche influenze che lo frammentano e lo rendono talmente cangiante da essere inafferrabile.
Perché è difficile descrivere questo tipo di musica, ho provato diverse volte a farlo, ma senza mai riuscirci se non approssimativamente, e finendo ogni volta col dire: ascoltàtela.
Non è musica semplicissima, ma non è nemmeno pretenziosa o volutamente astrusa. L’approccio migliore per assaporarla è quello di lasciarsi trasportare, di sdraiarcisi sopra e permetterle di avvolgerci, di solleticarci con le sue mille spume con i frammenti ora aguzzi ora fluenti dei suoi innumerevoli suoni, delle sue stratificazioni delle sue voci sovrapposte.
E basta, senza troppe riflessioni, perché è troppo sfuggente la loro musica per poterla cogliere in pieno, appena ce l’hai è già cambiata.
Come la realtà di questo decennio.
Lunga vita!
(ne avevo già parlato qui)

mercoledì 23 dicembre 2009

MdD(luca) 2: Le Luci della Centrale Elettrica – Canzoni da Spiaggia Deturpata (2008)

Venire emotivamente strapazzati da un disco è un’esperienza che ha del masochistico, ma quando riesce a descrivere con lucida crudezza una realtà tanto dura quanto vera, allora sei di fronte all’Arte. E allora non è più solo masochismo, è fascino. È una sorta di incantesimo che ti tiene legato con la sua strana forza seducente.
Vasco Brondi, in arte Le Luci Della Centrale Elettrica (che razza di moniker…), ha pubblicato un album di canzoni in cui la sua voce che canta, si appassiona, urla e sussurra, è accompagnata dalla sua chitarra e quella di Giorgio Canali. Cantautorato, insomma. Come quello di una volta.
E a certe atmosfere più consuete qualche decennio fa, viene fatto spesso riferimento, tra echi di Rino Gaetano, gli incubi delle tossicodipendenze, il malessere delle periferie inquinate e spoglie (attenzione: sono tutti riferimenti ad una realtà anche attualissima. È che oggi non viene più rappresentata dai media, non esiste più).
Avete presente Andrea Pazienza? Io non riesco a fare a meno di pensare a lui e certi suoi racconti a fumetti, a certa sua tragica ironia.
Amplificando le sensazioni a causa di un periodo lavorativo complicato, sono stato risucchiato dal gorgo malato di questo disco che non sono stato in grado di togliere dal lettore per un sacco di tempo, incastrato tra “foto in bianco e nero delle nostre facce stravolte sui quotidiani locali”, “discorsi metafisici sui fori dei piercing che si richiudono”, “i conoscenti morti negli incidenti stradali”, i “deserti al contrario”, i “parlandomi d'amore e di metadone”, e “hanno i fanali accesi per investirci”, e le “farmacie compiacenti”, e “profumo di paraffina dal fumo che ci siamo comprati”…
E in tutte le volte che l’ho riascoltato l’ho trovato terribilmente bello, con una sensazione non distante da certo spleen adolescenziale che pur avvelenando l’anima era capace di stimolare delle zone così profonde del mio io da renderlo irresistibile.
Per me la cosa migliore che sia uscita in Italia da tantissimo tempo.
(ne avevo già parlato qui)

MdD #4 (Marco) Mirah and The Black Cat Orchestra, To all we stretch the open arm


Mirah (all'anagrafe Mirah Yom Tov Zeitlyn) ha il talento e quella puntarella di antipatia tipica dei predestinati. Già con un nome così (in ebraico Yom Tov vale "buona giornata"), schieratissima per naturale militanza dalla parte delle minoranze, lesbica dichiarata, la Mirah non passa inosservata. Anche se abitualmente incide e si esibisce sa sola, in questo disco collabora con la Black Cat Orchestra, sfornando una raccolta di canti di protesta (in senso un po' lato, invero) di tutto il mondo, riletti armonizzando l'impronta folkeggiante di Mirah con la chiave genericamente jazz, della BCO. Comincerete a pensare che recensisco solo antologie di protest songs, vi prometto che è l'ultimo. Ma come si fa tacere di un disco di jazzisti dell'Oregon che fa una splendida e funerea rivisitazione strumentale di "Morti di Reggio Emilia" - qui l'originale - del nostro amico e vicino di casa Fausto Amodei sullo stesso CD su cui rilegge Bob Dylan, Leonard Cohen, Kurt Weill, le canzoni della guerra civile spagnola? Operazione Nostalgia? Per nulla, dall'interazione tra Mirah e la Black Cat Orchestra nascono brani rivitalizzati, moderni, in cui il lamentoso gioco di accordeon e violoncello accompagnano la splendida voce di Mirah, che non rinuncia a divagazioni bluesy. Anche i brani strumentali però non deluldono, anzi, la perla dell'album è proprio "Si me quieres escribir", vecchio brano della guerra civile spagnola, che qui diventa un tragico lamento a due voci per violoncello e fisarmonica. Tra i momenti più alti anche Dear landlord (Bob Dylan), Story of Isaac (Leonard Cohen) e "Si se calla el cantor", di Horacio Guarany e la stessa Morti di Reggio Emilia, che mai più avrei pensato di vedere rifatta qui.

martedì 22 dicembre 2009

MdD #3 (Marco) Les Anarchistes, Figli di origine oscura

Esordio avvincente di una peculiare (e ormai disciolta) formazione versiliana questo album stra-premiato (miglior esordio al Tenco 2002) è un disco folgorante, che sfida qualunque definizione. Provo a descriverlo a pezzi, de-strutturando una musica che invece ha un impatto assolutamente massiccio ed omogeneo. Dunque, prendete una sezione ritmica tecnica assai, con buone influenze jazz, una chitarra rtimica abitualmente distorta, tastiere e campionatori sovrabbondanti talvolta platealmente rumoriste, una sezione fiati formata da sax e trombone di impronta free-jazz e infine due voci stupende, Alessandro Danelli e Marco Rovelli, baritono e contralto, spesso impegnati in impasti sofisticati. E metteteli a suonare vecchie canzoni anarchiche, alcune famose, altre rispescate con cura filologica, un po' di Léo Ferré, qualche canto partigiano, il tutto con l'aiuto di pazzarielli assortiti, da Blaine Reininger (Tuxedomoon) a Raiz (Almamegretta) ad Antonello Salis. Il risultato, giuro, è sconvolgente: per una magia alchemica le melodie classiche si sposano con i fiati free, la ritmica quasi industrial, coi suoi clangori, tiene il passo con un cantato quasi classico. Sembrerebbe un incrocio tra i Suicide di Frankie Teardrop e Giovanna Marini, e detto così suona ripugnante. Invece sono Les Anarchistes e niente altro, e hanno un marchio di fabbrica così individualizzante come, nel recente passato, solo i CCCP seppero avere. Possono essere jazz, elettronica, folk, qualunque etichetta è una coperta cortissima. Come se fossero davvero figli di una combinazione astrale irripetibile, dopo due cd, perlatro degnissimi, si sono sciolti (o, dico speranzoso, sono in pausa). Ma questo cd è inarrivabile e, se dovessi indicarne solo uno per il decennio, andrei con questo.

MdD(luca) #3: Joanna Newsom – Ys (2006)

Joanna, meravigliosa Joanna!
Uno dei personaggi più improbabili della scena musicale ha realizzato un disco bellissimo, un disco che per me è talmente bello che raramente lo tiro fuori dalla mia discoteca (fisica e virtuale) per paura di assuefarmi alla sua bellezza. Ma ogni volta che lo faccio il timore si rivela infondato ed è un viaggio spettacolare, delizioso e decisamente incredibile.
Un’arpa e la sua voce (e che voce) e gli arrangiamenti orchestrali di Van Dyke Parks.
E basta.
I brani poi sono strutture di una complessità rara, quasi progressive, i testi di un’elaborazione strabiliante, l’energia quasi rock.
Sì, rock. Perché a dispetto dell’impostazione simil-celtica (arpa+voce) che personalmente non potrei sopportare, il tipo di musica è molto più vicina al rock, anche se ben distante da 4/4 o banali schemi strofa-ritornello. JN sostiene che lei utilizza l’arpa semplicemente perché è lo strumento che per varie vicende ha imparato a suonare meglio, ma che nella sua testa la musica è assolutamente rock, a volte anche violento, poi eseguito in punta di dita in quel modo lo trasfigura completamente, facendolo diventare più simile a lunghe cavalcate folk.
Una voce come la sua io non l’avevo mai sentita e va detto che alcuni la trovano del tutto insopportabile, sicuramente è originale, originalissima.
Le canzoni dell’album sono 5, e vanno da un minimo di 7 minuti a più di 16 in quell’Only Skin che per me è la canzone più bella di un album splendido: saliscendi vertiginoso tra melodie e armonie dolcissime, raggiunge un apice da brivido (letteralmente) nel finale a doppia voce con il baritono di Bill Callahan che aggiunge pregio al già preziosissimo tessuto.
Con questo disco devo necessariamente ritornare a quella che è l’impostazione di questa classifica: non sono, nemmeno a mio parere, gli album più rappresentativi del decennio. Questo disco poi è talmente unico che non lo rispecchia per nulla, non potrebbe rappresentare nient’altro che la sua splendida creatrice.

lunedì 21 dicembre 2009

MdD #2 (Marco) Susanne Abbuehl, April

Susanne Abbuehl è una cantante/compositrice jazz svizzero-olandese che ha studiato con Prabha Atra e Carla Bley che debutta per la ECM. Ma io questo disco l'ho comprato senza sapere nulla di tutto ciò, l'ho preso solo perchè la Abbuehl ha musicato la poesia "Somewhere I never have travelled" di e.e.cummings (per intenderci, quella che legge Michael Caine a Barbara Hershey in "Hannah e le sue sorelle" di Woody Allen.) Da perfetto ignorante di jazz, beatamente ignaro di cosa sia la ECM e chi sia Manfred Eicher, mi sono trovato tra le mani un gioiellino: la voce della Abbuehl è cristallina, le composizioni partono dal jazz per approdare alla world music più sofisticata, gli arrangiamenti sono raffinatissimi rifuggendo però dal virtuosismo che tanto jazz affligge. Si crea un ambiente sospeso, diafano, con una delicatezza quasi cameristica, ma con strumenti e melodie tutt'altro che classiche. Le composizioni sono quasi tutte originali, su testi di cummings e della Abbuehl stessa, più alcune covers della Bley e una della Atra, e una versione voce e harmonium di Round Midnight con brividi per tutti. Certo non è musica di ascolto facile, non la metterei in autoradio e a suonarla bassa si rischia di confonderla con new age più dozzinale. Ma per una serata meditativa, al chiaro di luna, difficilmente troverete di meglio.

MdD(luca) #4: Radiohead – Kid A (2000)

Questo disco è stato da più parti, ben più autorevoli del sottoscritto, indicato come il disco del decennio. Per citarne due, Rolling Stone e Pitchfork.
E in effetti, a parte la quisquilia della posizione in classifica, sono pienamente d’accordo: Kid-A è un grandissimo album.
Personalmente non lo ritengo così assolutamente innovativo come viene fatto da più parti, ma credo che abbia avuto l’enorme merito di aver saputo tradurre in termini pop tutto il movimento fino ad allora sotterraneo della musica elettronica di avanguardia.
Misto di elettronica rock e pop inanella brani suggestivi uno dietro l’altro, talvolta derivando verso territori free e noise, altre volte galleggiando su tessiture electro-pop, altre ancora vagando tra l’intimismo e l’ambient.
Anche in questo caso, come piace a me, l’album è frutto di una scelta coraggiosa: i Radiohead dopo aver stazionato per qualche anno nei lidi dell’indie più di nicchia, fecero il botto con l’albumOk Computer e in particolare col singolo Karmapolice. Quindi, nell’album successivo, invece di monetizzare con album spacca classifiche, virarono di rotta e svoltarono verso sonorità meno accessibili, improponibili per MTV o RadioDJ, con l’eccezione di Idioteque, forse la traccia più famosa dell’album.
Questo disco fu seguito a ruota da Amnesiac, praticamente registrato durante le stesse sessioni. Se Thom Yorke e soci avessero avuto il coraggio di pubblicarli insieme, come doppio album, probabilmente sarebbe stato uno dei dischi pop più belli di sempre, anche oltre il decennio.

MdD(luca) #5: Sufjan Stevens - (Come on feel the) Illinoise (2005)

Per conto mio SS è un genio del pop, ma uno di quei geni strabordanti creatività, il cui unico limite sembra essere proprio la loro esuberanza che potrebbe correre il rischio di essere dispersiva. Ma non è successo, almeno con questo disco.
Secondo album di un progetto che ne prevede(va) 50, uno per ogni stato degli U.S.A., è dedicato all’Illinois, lo stato di Chicago e dei suoi Bulls.
Il progetto, dopo avere dato alla luce l’album per il Michigan e appunto questo per l’Illinois è temporaneamente accantonato, in funzione di ulteriori ambiziosi progetti (si diceva la dispersività), ma già fin da quest’album mostrava difficoltà di ordine piuttosto pratico. Voglio dire: hai in mente di fare 50 album 50 (che neanche Neil Young!) e nel secondo ci metti 22 canzoni? Vabbè che alcuni sono proprio solo dei frammenti di pochi secondi, ma in totale si arriva a 74 minuti, che se non sbaglio è il limite di capienza di un CD singolo. E poi poco dopo pubblica una serie di outtakes delle stesse sessioni (altri 21 pezzi) e li dedica ancora allo stesso stato. Di questo passo quando ci arriva a 50?
Rimanendo all’album in oggetto, anche qui non si nascondono manifestazioni di magniloquenza: pezzi orchestrati per big band, cori, strumenti a profusione, reprises strumentali.
E i titoli!
La seconda traccia, che si potrebbe convenzionalmente intitolare The Black Hawk War si intitola invece (giuro) “The Black Hawk War, or, How to Demolish an Entire Civilization and Still Feel Good About Yourself in the Morning, or, We Apologize for the Inconvenience but You're Going to Have to Leave Now, or, 'I Have Fought the Big Knives and Will Continue to Fight Them Until They Are Off Our Lands!”.
Il clima generale del disco oscilla tra momenti intimi, appena accompagnati da un pianoforte o da un banjo (sì, SS ama il banjo) e esplosioni corali, festose, in cui ti immagini cheerleaders saltare sul palco ad eseguire coreografie e danze (succede proprio così!) e improvvisi ritorni alla quiete tra ottoni che scemano e clap-hands. Non ho mai avuto il piacere di vederlo dal vivo, ma da quel che si trova in rete pare proprio che i suoi concerti siano una gran festa all’americana.
Questo disco sarebbe un monumento al pop americano, se non fosse che alla fine è talmente originale da poter essere solo celebrativo di se stesso e della propria capacità di fare grande musica.

MdD(luca) #6: !!! – Louden Up Now (2004)

Prendi un gruppaccio di newyorkesi che ama il funk e lo esegue con attitudine punk: voilà, le punk-funk!
Un senso del ritmo bestiale, l’urgenza di variare spesso e volentieri i brani in corso, la voglia di buttarla anche in caciara di tanto in tanto, ma senza perdere mai del tutto la bussola, fanno di questo album e del loro modo di fare musica una delle cose più intriganti del decennio. Musica ai margini della disco, eseguita con strumenti convenzionali, ma in grado di non sfigurare di fianco ad altre e più ordinarie dancefloor-hits
Tra tutte la perla assoluta è “Me and Giuliani down by the school yard”, singolo esplosivo e trascinante, capace di contenere in sé il germe di una manciata intera di canzoni e di mischiarli tra loro, sovrapponendoli ed alternandoli in modo da creare una piccola suite di quasi 10 minuti in grado di darti l’impressione di avere attraversato tutto un genere.
Il resto dell’album è francamente un pelo inferiore, pur restando ad ottime altezze, ma è la sua forza trascinante da cazzoni in festa che pervade tutto il lavoro a renderlo davvero un grande album.

domenica 20 dicembre 2009

MdD #1 (Marco) Noir...et rouge aussi un peu! - Les Amis d'ta Femme


Da chi si chiama "gli amici di tua moglie", scrive versi quali "je me souviens encore de ma premiere femme, elle s'appelait Nina, une vrai putaine dans l'ame" (capito, vero?) e finisce gli spettacoli con una gratuita ostensione dei propri genitali non ti aspetteresti certo un'operazione culturalmente rilevante. Invece i miracoli accadono, e questo, un concept album, dedicato alla canzone anarchica francese dalla Comune di Parigi ai giorni nostri, è un disco per cui spellarsi le mani. La massima meraviglia però sta nel fatto che le covers non sono fatte applicando a rullo la ricettina della casa (stile Nouvelle Vague, per intenderci), ma sfoggiano un eclettismo inatteso. L'inizio è folgorante, con tre canzoni d'epoca completamente rivisitate. La canaille (originale del 1870!), diventa un rockabilly credibilissimo che ricorda gli Stray Cats, sostenuto da una sezione di fiati che esce dritta da American Graffiti. La Semaine Sanglante è power pop ballabile, con chitarrona distorta e basso pulsante; Elle n'est pas morte diventa un samba frenetico, sostenuto da fisarmonica, tromba miagolante in sordina e percussioni tropicaleggianti. E attenzione: ne viene riproposta a fine album come bonus track una meravigliosa versione in chiave jazz con chitarre semiacustiche e impasti vocali ricamati a 3 voci. Si passa poi in maniera fluida al pop di Le Sang des Martyrs, al punk incendiario di La dynamite, al reggae di La grève des meres per riapprodare in ambiente più francofono, con i bal musette di Chanson de Craonne e la Java des bons enfants e la francesissima Java de Caniveau. Completano il panorama La ballata del Pinelli (una versione mandolinata, à la Theodorakis o giù di lì, forse l'episodio meno sapido dell'album), una versione di A las barricadas coi tempi straziati e Sois faineant, un numero da cabaret di Coluche che ci invita tutti a abbandonare l'inutile fatica del lavoro per "scopare e collezionare malattie veneree". A dispetto del caleidoscopio stilistico cui si stati sottoposti, la sensazione che rimane è di un album solido, ben pensato e ben fatto. Stupisce, al limite, che a farlo siano stati proprio questi signori qui.

sabato 19 dicembre 2009

MdD(luca) #7: Okkervil River – Black Sheep Boy (2005)

Con questo album andiamo veramente nel personale, nel senso che non ci sono forti ragioni oggettive perché si trovi in questa posizione in questa classifica. Non è innovativo, non è folgorante, non è risultato di ricerca artistica inusuale, non è neanche così figlio di questo decennio.
È semplicemente molto bello. Se vi pare poco.
Folk-rock suonato classicamente, chitarre, batteria, basso, voce, qualche tastiera, alcuni squilli di tromba e basta. Però è un disco di cui mi sono innamorato subito e che ancora oggi ascolto con estremo piacere.
Gli Okkervil River sono una band texana che ti immagini muoversi sul palco jeans e t-shirt e poi venirsi a prendere una birra assieme a te, tanto lontani sono da qualsiasi idea di star (o almeno, sembrano essere, poi magari sono degli stronzi altezzosi, io non li conosco, ma è questa l’idea che ho).
L’album si snoda quasi regolarmente tra pezzi lenti, suonati in punta di dita, e pezzi più energici, trascinanti. L’atmosfera rimane comunque sempre rilassata, frutto di canzoni ben interpretate e suonate senza eccessi, classico rock, chitarra collegata e via, senza effetti o distorsioni, la batteria dietro e il basso a sostegno. Poi si canta. Tutto qui.

Le 10 canzoni MdD

Luca, Luca, che casino hai combinato con il tuo invito. Sono dovuto andare a spulciarmi le date di uscita dei CD, e poi giù a meditare a manovella quali sono i Top Ten del decennio! E nel farlo ecco che vengono a galla canzoni che prese singolarmente mi hanno inebriato o esaltato o coccolato o inquietato per un/il decennio mentre il resto del CD che le conteneva veniva regolarmente colpito dal tasto "skip". Che ruolo dare a queste benedette melodie? E a quei CD belli solidi, ma senza la vampata singola? Allora, vai con una scelta diversa dalla tua: 2 classifiche del MdD, una per gli album e una per le canzoni. E se si ricoprono parzialmente, amen. E se si rimandano l'una con l'altra, è normale.
Via quindi alle 10 canzoni Migliori del Decennio.
Avviso agli ascoltanti: queste sono le 10 canzoni che mi hanno dato di più nei due lustri. Possono essere il verso intimista come la rullata esplosiva, il gioco di parole o il gioco dei violini. Non sono le più innovative, le più raffinate, le più note. Sono le più mie.

MdD #1 Emiliana Torrini, Today has been ok. Emiliana è la (mia) voce del decennio. Apolide, eterea, dolcemente hippie, con tutti i suoi richiami londinesi e la poliedrica cultura musicale. Qui sa un po' di Velvet e un po' di Joni Mitchell, ma con una leggerezza tutta sua. Una ballata in punta di dita e un ottimismo che illumina qualunque mattina storta con una voce di cristallo. per ascoltare

MdD #2 SKA-P, Mis colegas. Gli Ska-P in fase matura. Si parte dallo ska energico per arrivare alle radici del punk, con una melodia che evoca i primi Jam, secca, bella originale, con un ritornello indelebilmente arrabbiato. Coscienza sociale, chitarre potenti e una ritmica che gira. Si trova un po' ovunque, compreso http://www.youtube.com/watch?v=u3EF0gWe17Q

MdD #3 La Famiglia Rossi, Mi sono fatto da solo. Questo (ahimè, ahinoi, ahitutti) è stato anche il decennio del Berlusca. E questo è il brano che nella sua leggera semplicità l'ha meglio descritto, spiegato, deriso. Vero tormentone, musicalmente inconsistente, mi pregio di averlo selezionato e ballato (ubriaco) al mio matrimonio. Sarebbe stato bello che fosse divenuto un inno generazionale e/o la musica di un sipario che si chiudeva alle spalle del despota irriso. Disponibile qui o anche live (ancora meglio)

MdD #4 Les Anarchistes, Il bagno alla bianca. Un trip-hop su una melodia di un cantautore russo degli anni 50 (Visotskji), con un testo di una poeticità drammatica e scarna, con una voce (Alessandro Danelli) come ce ne sono davvero poche, il tutto sorretto da percussioni elettroniche possenti. Argomento? i gulag, la separazione emotiva, il tradimento politico. Ascolto non facilissimo, ma molto gratificante. assente su youtube.

MdD #5 Do you take it (in the ass), Wetspots. In omaggio a quella componente dell'umanità che in questi anni si è emancipata, ha gridato al mondo la sua differenza e diritto ad essere, e che ha saputo farlo con ironia ecco questo delizioso doo-wop dei Wetspots cioe I Punti Umidi, in cui, una coppia affronta la conditio sine qua non per avviare una relazione duratura. La meraviglia è che il testo non spiega (lo fa il video, con sorpresona finale) chi sia il taker e chi il giver. Eccolo.



MdD #6 Il tuo culo, Sulutumana. Uno swing-jazz raffinatissimo, contraltare del titolo apparentemente rude, per cantare il desiderio sensuale ed emozionale insieme. "vorrei essere il tuo piede quando esce dalla scarpa ...vorrei esser la tua lingua mentre scioglie il gorgonzola.." sono la dichiarazione d'amore più bella che mi ricordi. E visto che i Sulu sono gente onesta, proprio alla fine c'è spazio anche per il culo. Disponibile qui, non certo nell'esecuzione migliore.

MdD #7 The Lake, Antony and the Johnsons. Brani dell'ambiguo Antony degni di segnalazione ce n'è tanti e spiace lasciarne fuori alcuni (River of sorrow, Cripple and the Starfish, Happy Xmas con Boy George), ma questo è un gradino sopra tutti. La laconica intro di piano porta ad una strofa sinuosa che recita un poema di Edgar Allan Poe sulla paura di un bimbo di un lago vicino a casa. E' venuta con me in India, Albania e in quasi ogni notte di turno. Voilà.

MdD #8 El mustru, Davide Van De Sfroos. Al di là delle (possibili) simpatie legaiole, il Bernasconi in arte Van De Sfroos è l'ultimo vero cantastorie che abbiamo. Qua, su una melodia trascinante, ci racconta di un anziano pescatore all'ospizio che ha visto il mostro nel lago e nessuno gli crede attribuendo i vanneggiamenti del vecchio all'arteriosclerosi. Sinchè un giorno, per sfida prende una fiocina e si piazza sul pontile...E' confortante che qualcuno abbia ancora storie da raccontare. Eccola

MdD #9 On parle de parité, Femmouzes T. Quanto di più "anti-trendy" esista. Praticamente registrato in presa diretta, a metà tra toasting e inno politico, con un testo dei più lucidi e attuali e una formazione peculiare. Immaginate un po' di Mano Negra e un po di Zebda, il tutto unplugged. Femminismo d'assalto, produzione minimale, e una melodia che ti si insinua nelle orecchie e si incolla per sempre. Fossimo stati nel '68 sarebbe stato l'inno di piazza di un movimento. Peccato. la trovate qui.

MdD #10 Guy Fawkes's Table, Attila the Stockbroker. "Attila l'agente di borsa" è un nome d'arte già un po' impegnativo dietro cui sta, per sua ammissione, un punk di 56 anni, poeta e mandolinista. Piccolo eroe della controcultura inglese, tifosissimo - ne ha composto l'inno - del Brighton and Hove Albion, Attila ha scritto un sacco di canzoni musicalmente banalotte ma con testi pungenti e coraggiosi. Questa, sull'invasione angloamericana dell'Irak è una delle migliori. Mentre da noi tanti "cantautori" si contemplano l'ombelico ore rotundo, c'è ancora chi fa canzone politica, leggendo il mondo. varie versioni su youtube, tutte con audio inqualificabile.

Canzone di riserva Marlevar, Stella di Venere. Agli antipodi, una ballata delicatissima, un bimbo che chiede alla madre cosa sia quell'astro che vede, svolta in occitano su una melodia che porta all'incanto. Potenzialmente sdolcinatissima, non lo è mai. Si perde dopo un po' in svisate vocali piuttosto inutili, ma i primi minuti sono imperdibili, con un gusto piacevolmente familiare, come la marmellata della nonna. PS: non c'è su youtube!

venerdì 18 dicembre 2009

MdD(luca) #8: Burial – Untrue (2007)

Qualcuno l’ha definito l’unico vero suono nuovo del decennio.
Non so, forse è esagerato in entrambi i sensi (forse non è l’unico e forse non è così nuovo).
Però per me è stato una delle scoperte più entusiasmanti degli ultimi anni, miglior album del 2007, per dire.
Beat storti, bassi pulsanti, eteree e distanti vocalist, arrangiamenti che sembrano piovere dal futuro, il tutto estremamente coeso e coerente, oscuro ma trascinante.
L’autore, un tizio schivo, geloso custode della propria riservatezza, è rimasto pressoché anonimo fino al 2008, quando si è scoperto trattarsi di un certo William Bevan, informazione che non ha aggiunto molto alla sua biografia, in quanto il William in questione è un tizio abbastanza al di fuori dei giri noti dei club londinesi o della musica underground in genere.
Infatti il modo migliore per definire la sua musica e che conferma il suo essere un po' "fuori dal giro", arriva proprio da una sua intervista:”Il suono su cui mi focalizzo è tipo quando esci da un club e nella tua testa c'è l'eco della musica che hai appena sentito... io amo la musica da club, ma non posso fare quel tipo di roba... posso provare a riprodurre il riverbero di quella sensazione”. E questi riverberi si sentono distinti in tutto l’album, distanti, rarefatti, a volte accennati e interrotti, proposti e poi abbandonati, ma sempre a reggere la fragile struttura su cui poggiano i bassi potenti.
Sono dischi che ti convincono che la musica dei nostri anni sia ancora grande musica.
(ne avevo già parlato qui)

giovedì 17 dicembre 2009

MdD(luca) #9: Scott Walker – The Drift (2006)

Questo è un album che non consiglierei a nessuno. Né agli amici, ché rischierei di perderli, ne ai nemici, perché è un segreto troppo prezioso.
Scott Walker è un personaggio la cui sola biografia già mi indurrebbe ad adorare. Teen-idol leader dei Walker Brothers alla fine degli anni ‘60, un gruppo pop di un certo successo tra Beach Boys e Elvis, prese poi una strada solistica che assomiglia più ad un suicidio commerciale che ad una carriera discografica.
Dotato di una voce calda e profonda che agli inizi ne faceva un perfetto crooner, nel tempo ne ha accentuato il profilo lirico e impostato, giungendo ad un modo di cantare che definire originale è eufemistico.
La cadenza di uscita dei suoi dischi è ora diventata ultradecennale, questo album seguiva infatti il precedente di una dozzina d’anni, e pare che ognuno di essi sia il risultato di un lavoro che dura tutto quel tempo.
Questo “The Drift” è di gran lunga l’album più inquietante che abbia mai sentito. Se si supera l’iniziale sbigottimento (“ma che cazzo è ‘sta roba?”) ci si può lasciare trasportare in un allucinante viaggio dell’orrore tra suoni inusuali e sfasati, cupe melodie, atmosfere grandiose e lugubri, improvvise esplosioni e ritorni di quiete.
L’ho ascoltato una volta in cuffia in una sessione notturna, oscillando tra sonno e veglia. C’è una canzone, la penultima dell'album, The Escape, che si sviluppa per quasi 5 minuti tra suoni delicati e sussurrati, e improvvise accelerazioni, raccordati ancora, come sempre, dalla sua voce assurda. Era tardi, io ero praticamente addormentato quando d’improvviso irrompe, sostenuta da un organo inquietante, una voce da Paperino malato che gracchia “What’s Up, Doc?” a tutto volume. Non dimenticherò mai il puro terrore che ho provato nell’essere riportato alla veglia in quel modo.
Poi, finta quiete dopo la tempesta: una canzone completamente acustica e rilassata, ma intervallata da inspiegabili “pss! pss!” che fanno sussultare e mantengono alta la tensione fino alla fine.
Assurdo, un disco il cui ascolto è quasi una perversione.
Però grandioso, davvero.

mercoledì 16 dicembre 2009

MdD(luca) #10: The Flaming Lips – Embryonic (2009)

Se non fosse che probabilmente a loro non gliene frega molto di questa o di altre classifiche del genere, direi che è il classico colpo in zona Cesarini, realizzato da una band che durante gli altri anni del decennio aveva prodotto album di buona fattura, ma non eccezionali, o comunque non al livello di quanto fatto nel decennio precedente.
Con quest’album sono tornati a livelli superlativi, con la forza di osare e la sfacciataggine di non porsi limiti creativi. 70 minuti esplosivi e fuori dagli schemi, ipnotico, anticonvenzionale e affascinante. Delizia per quelle orecchie che amano ancora cercare qualcosa di diverso dal solito.
(ne avevo già parlato qui e qui)

MdD - Metodologia

[tanto perché poi si capisca che diavolo sto facendo]
Col prossimo post inizio la mia personale lista del Meglio del Decennio 2000-2009.
Pubblicherò un post per ogni album a partire dal decimo e li contraddistinguerò con la sigla MdD.
Sono stato dibattuto se seguire o no questo sistema, perché poi, data la struttura del blog, i post risulteranno leggibili in ordine inverso, cioè in alto ci sarà il primo e in fondo il decimo, e non so se questo è proprio come desideravo che venisse la cosa. Ma non importa.
L'alternativa di fare tutto in un'unica pubblicazione avrebbe creato un mega-post francamente eccessivo.
Farò poi un post riepilogativo con i link a tutte le posizioni

lunedì 14 dicembre 2009

Anniversario - London Calling


30 anni fa oggi usciva London Calling (devo scriverlo, "dei Clash"?). Non posso mettermi a recensirlo, sarebbe come recensire la Gioconda o le Piramidi o la torta Novecento. In più, il www è pieno di recensioni, commenti, critiche, anche belle e ragionevoli. Nulla da aggiungere, quindi, eccetto che parafrasare Antonio Catania in "Mediterraneo". Minchia, trent'anni...

Gestazione

Pare sia pressoché doveroso, per cui sto approntando la mia personalissima lista del meglio della decade che si sta concludendo (lo so che per i puristi del calendario il decennio si concluderà il 31.12.2010, ma per me gli anni Ottanta si sono conclusi il 31.12.89, i Novanta il 31.12.99 e Questi cazzo di anni zero si concluderanno il 31.12.2009).
Non ho certo sufficiente competenza per creare una lista completamente oggettiva de Il Meglio, ritengo che per farlo sarebbe necessario avere ascoltato, delle tonnellate e tonnellate di roba uscita in questi anni, una percentuale ben più alta di quello che ho potuto fare io, per cui mi limiterò ad elencare quelli che per me sono stati i più significativi.
Siamo pertanto a livello piuttosto emotivo, anche se alla fine penso che non finirò tanto distante da certi listoni ufficiali.
La prima scrematura è già pronta, ora si tratta di filtrare i 10 e di ordinarli.

Questo post è sia programmatico che di invito a tutti a fare altrettanto

venerdì 11 dicembre 2009

Live - Peter Hammill a Borgomanero (6.12.09)

Peter Hammill è uno che non lascia indifferenti, o lo si adora o lo si detesta. Troppo connotate le melodie, troppo peculiare la voce, troppo drammatici i testi per una grigia indifferenza. Per chi lo adora, come chi scrive, l'unica buona ragione per non andarlo a sentire é la paura che il tempo ne abbia incrinato la voce, la verve, la lucidità, ma è un rischio che non ci si può esimere dal correre. Ed eccoci allora al teatro di Borgomanero, con mezzo litro di Vespolina a scaldare il sangue dalle nebbie del Sesia, pronti a rivedere questo attempato signore inglese, con la chioma bianca e sempre più magro. All'ingresso qualche volenteroso ha tradotto i testi delle canzoni che probabilmente Hammill eseguirà e sul foglietto sono segnate sia Refugees che Man-Erg, cavalli di battaglia dei Van Der Graaf Generator. In un teatro semivuoto la mia attesa si fa fortissima. E lui, con i suoi 61 anni, non delude. La carrellata su 40 anni di carriera comincia al pianoforte, con Just good friends, molto più intima fatta con soli voce e piano e si snoda su e giù per i suoi tantissimi album. Solo dopo un bel po' arriva la prima del nuovo album Thin Air, Mercy, e dopo mezz'ora Hammill passa alla chitarra. Peccato che il cavo della chitarra faccia le bizze, e con grande flemma Hammill torna al piano per altre chicche (su tutte A way out e A better time)

Al momento dei saluti non ha eseguito nè Refugees nè Man-Erg e ci offre un solo bis. Ma è una versione da brivido di Vision, che trovate qui sotto (audio discutibile, fonte ignota), che ci lascia incantati.

"I'll never find a better time to be alive than now", canta Peter. E viene quasi da credergli, anche senza Vespolina.

Live - Teatro degli Orrori @ Hiroshima

E alla fine, dopo averli scoperti, sentiti, segnalati e commentati, sono pure andato a vederli in concerto. E sebbene non possa essere ancora considerato un "piccolo fan", ora ho una ragione ulteriore per apprezzarli.
L'inizio, come spesso capita, è stato un po' impacciato. Qualche problema nella regolazione dei volumi, l'approccio sorprendentemente teatrale del frontman, una (penso tipica) fredda accoglienza del pubblico torinese, hanno reso un po' legato il primo brano, Direzioni diverse.
Poi il ghiaccio si è rotto e lo show ha preso la sua giusta direzione.
Sul palco si evidenzia ancora di più il contrasto tra la musica pesantemente rock e il modo di cantare, in bilico alternato tra il recitar teatrale e il vocalizzo classico, ulteriormente accentuato dal modo di fare istrionico di Capovilla, che sfrutta il palco non solo come un cantante, ma pure come un attore che interpreta i brani (e devo ammettere di avere compreso il vero significato di alcuni di essi proprio vedendoglieli recitare).
La scaletta si alterna tra i pezzi dei due album, con una evidente predilezione del pubblico per il primo, mentre il sottoscritto, che praticamente conosce solo l'ultimo, si entusiasmava quando vengono eseguiti brani di questo.
Il frontman dialoga col pubblico, giocando sulla teatralità del suo modo di porsi e manifestando un impegno politico sinistrorso piuttosto semplice ed efficace tra il pubblico dell'Hiroshima. Di questi tempi, poi...
Il concerto trova il suo apice nell'esecuzione di A sangue freddo, che oltre a dare titolo all'album e al tour, è dedicata al poeta nigeriano Ken Saro-Wiwa, la cui tragica biografia Capovilla si premura di raccontare al pubblico prima dell'esecuzione, esortando applausi alla sua memoria e ricordando la situazione della Nigeria, compresi i devastanti effetti dei nostri interessi (Agip) da quelle parti.
Segue la trascinante In due che permette al pubblico di sfogare le sue energie prima della conclusione.
Dopo una pausa di qualche minuto eseguono ancora Die Zeit, suggestivo finale dell'album, messo anche a conclusione quieta-animi del concerto.
Bravi, bravi, bravissimi.
Per concludere incorporo il video di A sangue freddo che ben mostra il modo di fare di Capovilla.
È così. Immaginatelo sudato sul palco.

giovedì 10 dicembre 2009

citazione del giorno

"fences once erected to protect simply divide" - Peter Hammill.

L'utile e il dilettevole

Ho adorato, adoro e forse adorerò sempre i Portishead.
Ora ne ho un motivo in più.
In occasione del Human Rights Day (oggi, 10 dicembre), la band di Bristol ha pubblicato un nuovo singolo, Chase the tear e l'ha donato ad Amnesty International.
Da questo link al sito di Amnesty si può vederne il video (meravigliosa Beth Gibbons...) e scaricarlo, previo pagamento di 0,99 eur che andranno totalmente a A.I.

sabato 5 dicembre 2009

Cinque vocaboli che detesto in ambito musicale

Cinque vocaboli che detesto in ambito musicale
menestrello (s.m.): usualmente impiegato per designare un cantautore particolarmente gradito , di cui si voglia enfatizzare in qualche modo sincerità e purezza. Di prassi, il m. sfoggia abiti inconsueti, capigliatura incolta, atteggiamento dimesso e ritroso, e soprattuto uno sguardo incantato ed innocente sul mondo, ma non privo di una sua saggezza. In virtù di questo candore al m. si permette più o meno tutto, soprattutto qualunque astrusità letteraria, banalità musicale o comunque carenza di ispirazione. L'aura di naivetè che lo circonda è tale che l'autore suggerisce un'analogia con i cantastorie medioevali. La definizione di m. è ancora più calzante se all'immagine del m. si può aggiungere una vena misticheggiante. Spesso è definito m. un musicista eccelso, assolutamente stimabile, che però l'autore misinterpreta come divinità scesa in terra. Tipici esempi di m. sono Dylan, Tim Buckley, Donovan, Cat Stevens, Branduardi ed in tempi più recenti Devendra Banhart. Grandi cantautori che non sono menestrelli: Billy Bragg, Peter Hammill, Robyn Hitchcock, Elliot Smith, Eddie Vedder...
sacerdotessa (s.f.): una cantante per la quale l'autore prova un indiscutibile attrazione. Spesso affibbiata a figure non così femminili e che con una religione, anche pagana, hanno poco a che fare, la definizione di s. permette concerti sold-out a qualunque età, biglietti a prezzi esorbitanti e la piena indulgenza della critica, anche dopo brani di 25 minuti e un abuso di parolacce e argomenti scabrosi. Tra le destinatarie più meritevoli Siouxsie, Diamanda Galas e, se piacciono, Patti Smith e Bjork. L'ho sentito usare per Gianna Nannini.
seminale/derivativo (agg.): se A prende qualcosa da B, cosa che avviene dall'età della pietra, e l'autore è un fan sfegatato di A, A è "seminale". Se invece è un detrattore di B, B è "derivativo". Si possono tradurre in "precursore" e "copione", ma fa meno figo.
radici (o roots) (s.f.): inteso come ritorno alle, riscoperta delle.... Questo riguarda particolarmente la generazione sui 35-40 anni, che ha visto come prima dell'esplosione della world music o dell'etnica, si sia voluta piazzare questa etichetta a qualunque cosa non fosse rock mainstream, se proveniente da lande inconsuete. Ogni volta che qualcuno tirava fuori uno strumento acustico che anche suo nonno sapeva strimpellare o buttava giù due paroline in un idioma che non fosse l'inglese, giù fiumi di inchiostro a illustrare come fossimo testimoni di un percorso new age di riscoperta dei propri antenati, della cultura locale e via dicendo. Particolarmente vittime di questa assurda deformazione sono stati negli anni 80 i gruppi australiani (Died Pretty, Midnight Oil), tutto il cosiddetto Paisley Underground, quasi tutti i losangelini (Los Lobos e tutto il tex-mex che riscoperta non è), insomma tutti tranne i rockers newyorchesi.
imperdibile/incredibile (agg.): solitamente strillato nelle pubblicità dell'ultima fatica musicale della vecchia gloria e del golden boy del momento, ha quasi sempre un valore paradosso. Sia "il nuovo incredibile album di Giusy Ferreri" che "un altro imperdibile album dei grandi Pink Floyd" sono perdibilissimi, a meno non dobbiate pareggiare le gambe di quel tavolino che balla.