martedì 30 marzo 2010

Canteremo ancora?

"Anche nei tempi bui
si canterà?
Anche si canterà.
Dei tempi bui."

Bertolt Brecht

peraltro musicata splendidamente dai Chumbawamba, con il titolo "Introduction", sul loro ultimo album, "ABCDEFG"

lunedì 29 marzo 2010

Robert Wyatt - Radio Experiment

Questa in effetti è per stomaci abbastanza pelosi.
Racconta di quando in RAI c’erano ancora delle oasi di servizio pubblico, quando almeno ogni tanto si riusciva a fare ancora cultura e a tentare di diffonderla al pubblico.
Si parla del 1981 e allora in Radio 3 ebbero la magnifica idea di “fotografare” un vero atto creativo, così invitarono nientemeno che Robert Wyatt chiedendogli di passare una settimana negli studi di registrazione a Roma per fare quello che lui sa fare meglio: comporre musica.
Wyatt arrivò con solo qualche idea in testa, ma nulla di veramente preparato e si mise all’opera. Questo CD, pubblicato non molto tempo fa, raccoglie i risultati di quell’esperimento.
Esperimento riuscitissimo, ma si intenda: esperimento vero e proprio. E sperimentale è appunto il tipo di musica che viene presentato. Per chi conosce Wyatt stiamo a metà fra The End of a Ear e Rock bottom. Per chi non lo conosce, sono 44 minuti di musica molto particolare, frammenti sovrapposti e iterati, giochi armonici e melodici alle tastiere, giochi di nastri e effetti applicati a voci e qualsiasi tipo di strumento, c’è il tema da colonna sonora (L’albero degli zoccoli, stupenda) e il classico del jazz (Billie’s Bouncie di Charlie Parker rielaborato in un doppio scat sfigurato), c’è la leggendaria e meravigliosa scuola di Canterbury (nei primi tre brani soprattutto), ma soprattutto c’è il musicista, l’Autore da solo con i suoi strumenti alle prese con il vagare rincorrendo il proprio impulso creativo.

sabato 20 marzo 2010

Gil Scott Heron - I'm new here.


Ha senso, caro ed erudito pubblico, recensire, pontificare o comunque disquisire su un disco talmente ostico che non si è mai riuscito a sentire tutto di fila? Non è uno zinzino presuntuoso consigliare un ascolto mai completato in prima persona? Oltretutto il tizio in questione non è esattamente un tipino facile, erano solo 16 anni che non incideva musica, e per inciso (ah, che bel calembour!), non si ritiene nemmeno un cantante. Gil Scott Heron, una biografia troppo complicata per spiegarla qui, comunque segnata da tanta politica, tanta coscienza e tanta ma tanta droga e un vocione nero rotto da tutti gli abusi, torna con un disco come sempre di "spoken word", voce parlata, quasi un comizio in musica. La musica, appunto, è di fatto un blues minimale, senza fronzoli, senza assoli chilometrici o virtuosismi di sorta. Gli arrangiamenti sono molto accurati nel loro essere essenziali, dagli archi pizzicati di "I'll take care of you" al sommesso trip-hop (è un ossimoro?) di "Your soul and mine" o "New York is killing me". Quando proprio gli strumenti non ci sono, e resta solo il vocione baritonale, il pezzo viene etichettato come "interlude", quindi chi vuole schiaccia il tasto skip e si risparmia la tirata dell'incazzoso vocalist. Confesso di averlo fatto anche io, non sempre si è inclini a sentire le peraltro giuste elucubrazioni di quest'uomo, che difende e fa vessillo della propria povertà, del proprio disagio, dei propri limiti. Ma visto nella sua globalità, con le sue perle, il disco è magari indigesto, ma pieno di spunti e di sentimenti forti. Consigliato, ma non come introduzione alla black music. Per ulteriori nozioni consultare http://gilscottheron.net/ o la voce Wiki su GSC. Per un ottimo riassunto valga la sua frase "per quanto tu possa aver perseverato nell'errore, puoi sempre tornare indietro". E' uscito da poco di galera, ricordiamolo.

venerdì 19 marzo 2010

In Memoriam... - versi prima di coricarsi. "Love came here", Lhasa.

Lhasa è morta un paio di mesi fa, oggi ci ha lasciato Alex Chilton. Sarà per spirito melancolico che ho trovato così pregnante questa lirica della compianta Lhasa de Sela.

Love Came Here


There is no end to this story
No final tragedy or glory
Love came here and never left

Now that my heart is open
It can't be closed or broken
Love came here and never left

Now I’ll have to live with loving you forever
Although our days of living life together
Of living life together are over

There's nothing here to throw away
I came to you in light of day
And love came here and never left

E' morto Alex Chilton


Vorrei una vita diversa, di quelle in cui hai tutto il tempo di commemorare la dipartita di Alex Chilton, di raccontare dei Big Star e dei Box Tops, di che brividi mette la sua cover di Ol'55 e non di celebrarlo di corsa, tra una mail ed una telefonata, tanto per non arrivare buoni ultimi. Con lui se ne va un pezzo di America, magari non geniale, ma buona e ruspante. Sono in tanti a dovergli, artisticamente, qualcosa, eppure la fama planetaria non gli ha arriso. Lui non se ne è mai voluto, al punto da dichiarare "What’s nice is that the people in my neighborhood just know me as Alex. It’s funny, because I spent so much of my life moving from place to place and I went through a few dark periods, but in the last few years I’ve kind of settled down.” R.I.P., Alex.

mercoledì 17 marzo 2010

Delusioni d'amore degli anni zero - baustelle, tetes de bois, sepe

“I gigli che marciscono puzzano più delle erbacce”, diceva il semisconosciuto poeta inglese William Shakespeare, a proposito di un ex amante che non ricambiava più i suoi sentimenti. E' innegabile, gli ex amori fanno più danni dei nemici nati tali. E' così anche in musica, quel disco che all'inizio è piaciucchiato e poi, mmm, forse è un po' una palla, non lo ascolterete più. E ugualmente, quei tizi tanto bravini, se poi cominciano a tirarasela come scimmie in calore, diventano antipatici assai. Mi successo sovente in questi trascorsi anni zero, ed allora libero astio in libero stato. Tre esempi.
Primi, i Baustelle. Il loro “sussidiario illustrato dell'adolescenza” è un album sicuramente accattivante, che dimostra in pieno il loro pregio principale: sanno scrivere canzoni, di quelle vere, fatte proprio strofa-ritornello-strofa-ritornello, quelle che ti viene voglia di canticchiare sotto la doccia o mentre stai guidando. E come previsto le canzoni mi sono entrate in testa subito, semplici e briose. Potevano benissimo presentarsi come gli Stone Roses o i Primitives (non quelli di Mal, quelli inglesi, quelli di “Crash”) nostrani, canzonettari sì ma proprio bravi. Peccato che abbiano ammantato tutta la loro produzione con testi e ambienti volutamente torbidi, compiaciuti del loro esibizionismo e gusto voyeuristico, spesso incentrati sul binomio erotismo-violenza. Sembra che al momento di comporre si siano guardati in mezzo alle gambe per scoprire, oh merveille, di avere dei genitali funzionanti e che vogliano gridarlo al mondo come se avessero loro l'esclusiva della pulsione eterosessuale, specie della visuale adolescenziale della medesima. Le voci soffiate, i coretti orgasmici, i testi con la metrica stiracchiata (… il tuo romanzo eroticò... le donnine pornografiché ...si toccavanò... - non è composizione paratattica, è proprio scrittura di bassa lega) non contribuiscono a creare tensione erotica,ma a porsi il dubbio se ci sono o ci fanno. I Baustelle restano a metà strada, compiaciuti ma non gioiosi, sembra che scherzino e invece sono seri. Uniti sotto il vessillo della maladolescenza, è ovvio che a criticarli si corre fortissimo il rischio di essere tacciati di bigottismo. Ad usare un eufemismo, me ne fotto. E la prossima volta, se voglio pensare a sbirciate maliziose ed a pulsioni adolescenziali, compro un film con Gloria Guida.
Due! I Tetes de Bois. Un gruppo che per scrivere giusto il nome devi avere anche l'accento circonflesso sulla tastiera. Ho comprato al volo il loro “Férré, l'amore la rivolta”. Bella, molto bella l'idea di riprendere e magari svecchiare un po' Léo Férré, buona la compagnia di naviganti illustri (Nada, Daniele Silvestri, Banco...), poi, diciamocelo, i TdB suonano molto pulito. Cos'è allora che urta? La saccenza dell'operazione, la devozione maniacale che emana da ogni traccia, la presunzione che rifare passo a passo il tuo autore preferito faccia di te un epigono e non un semplice imitatore. Il punto è proprio che i TdB Férré non lo svecchiano per niente, anzi, tranne che in alcune belle eccezioni (su tutte “Non si può essere seri a 17 anni” e “Comme a Ostende”) la sensazione di noia, di polvere accumulata, del “proprio come una volta” la fanno da padrone. E l'esperienza dal vivo non migliora: tutti crucciatissimi ad esibire il loro spleen, ricordano una meravigliosa battuta di Cederna in Italia-Germania 4-3 di Barzini, quando ridicolizzando le sue pose adolescenziali diceva “giaccone nero, ruga fissa, sembravo il figlio di Strehler”. Ecco, sembrano tanti figli di Strehler, che però dimenticano tal padre putativo rischiando il ridicolo con versacchiotti tipo “tu sei il Viagra del mio cuore”. Per motivi ignoti, forse per palesare una inesistente poliedricità, ecco che quando non eseguono Férré producono un brano loro a titolo “Vomito”, assolutamanente azzeccato (il titolo, il brano è deprecabile). Ad ulteriore testimonianza dello smisurato ego che affligge costoro, nel cd è inclusa una traccia con le registrazioni della segreteria telefonica delle loro chiamate a casa Férré. La prima volta che senti “Gli anarchici” cantata da loro compri il CD, quando la senti nella versione dei contemporanei Les Anarchistes dei TdB rimangono le pose da intellettualini in vacanza a Saint Germain des Près e poco altro. Confesso, irritato da tanta sicumera non ho ascoltato il loro album successivo, dal titolo sicuramente geniale “Avanti Pop”. Ma ho troppa paura di bissare l'esperienza.
E tre! Daniele Sepe. Proprio lui, il mercuriale folletto della musica partenopea. Suonatore di qualunque strumento, enciclopedico conoscitore della musica mediterranea e non solo, session man di enorme valore, ha pubblicato alcuni dischi di cui alcuni (“Conosci Victor Jara”, “Spiritus Mundi”, “Jurnateri”) meravigliosi. Cosa mi delude, allora? Che in ogni album che pubblica c'è sempre un pezzo (o più) già pubblicato altrove e dal momento che specie dal vivo il Danielone recita la parte del compagno duro e puro, e dispensa giudizi poco lusinghieri a chi gli pare un riformista, che occasionalmente inneggia al free download, allora non ci siamo per niente e spiace che su 5 dischi che paghi in realtà ne porti a casa solo 4 o poco più. Controllate su http://www.danielesepe.com/dischi.html per credere!

Smorfie e smorfiette

A costo di passare per piccolo fan, non riesco a trattenermi dal segnalare questo video. Joanna Newsom canta ad uno di quei talk-show che dalle nostre parti non possiamo non invidiare, per tanti motivi.
Trovo incredibili le smorfie che fa la cantante durante l'esibizione, veramente irresistibili.
La canzone è una dell'ultimo album e in ogni caso vale la pena darle un ascolto.
Buona visione:

Il video è più largo di quanto si riesca a visualizzare qui sul blog. Vi consiglio di vederlo direttamente su YouTube:

martedì 16 marzo 2010

Grant Lee Buffalo - Fuzzy

Parliamo del 1993 negli USA. E se nel 1993 eri americano e facevi rock, ma non indossavi camicie di flanella a quadrettoni non andavi tanto lontano.
Questo disco in effetti non è andato tanto lontano, non tanto quanto suoi ben più illustri coevi grunge che però facevano la cosa giusta al momento giusto ed ebbero un successo planetario, talvolta del tutto meritato, altre volte meno. Ma così è che vanno le cose.
Eppure questo disco, a quasi 20 anni dalla sua pubblicazione, appare per certi versi ben più fresco ed attuale di quelli. Sempre che vi piaccia il genere, s’intende.
Il genere di cui parliamo è rock che più classico non si può: 4/4, chitarre elettriche e acustiche, strofa-ritornello-strofa, perfino qualche assolo e pure le tastiere. Roba “muffosa” si sente dire.
Però ogni volta che mi ritrovo ad ascoltarlo non riesco a non trovarlo quasi perfetto. 11 canzoni bellissime, tra cui la magnifica Fuzzy che da sola varrebbe un intero album, ma l’elenco delle belle canzoni comprende pure The Shining Hour, Jupiter & Teardrop, The Hook, Stars’N’Stripes, Wish You Well, Dixie Drug Store e l’anomala (rispetto al resto dell’album) Grace.
Nell’ottica del “disco da regalare” questo figura nella categoria “niente che ti apra a nuove dimensioni, ma è abbastanza sconosciuto e forse non ce l’hai ancora”. Per quanto mi riguarda è il disco ideale da viaggio in macchina, rilassato e senza troppe asperità, ma comunque piacevolissimo.
Michael Stipe lo nominò il miglior album di quell’anno, e con questa sua dichiarazione, dopo quella su Vic Chesnutt, incomincio a considerare il suoi consigli ancora meglio della sua musica.

lunedì 15 marzo 2010

Joanna Newsom - Have One On Me

Il nuovo disco di Joanna Newsom è strepitoso, semplicemente.
4 anni dopo quel capolavoro di Ys, chi lo aveva ammirato (o adorato come il sottoscritto), attendeva con la classica curiosità e preoccupazione che si provano quando si attende la prova seguente ad un gran successo (nel senso di "riuscita", non certo commerciale): potrà mai esserne all’altezza? Replicherà la stessa formula a scanso di rischi? Sarà qualcosa di raffazzonato che rivelerà il prosciugamento della fonte creativa?
Poi si viene a sapere che il disco sarà in realtà un triplo CD. Allora la preoccupazione diventa quasi rassegnazione: la Newsom ha sbroccato.
Per chi non lo conoscesse, si sappia che ovviamente a Ys non erano mancate delle critiche e queste erano essenzialmente due: il timbro della voce e la lunghezza dei brani.
Sul primo punto, niente da fare. Il timbro è quello, un po’ nasale e quasi infantile, può piacere o meno, ma per quanto ci si possa lavorare non è che si possano fare miracoli. Questione di gusti comunque.
Il secondo è anch’esso opinabile, ma molto più trattabile. È a discrezione dell’autore, sebbene una certa esuberanza creativa non sia forse tanto facile da tenere a freno.
E cosa fa la ragazza? Quando sa che tutti la attendono al varco se ne esce fuori con un lavoro che insiste proprio nel suo aspetto più criticato. Chiaro che le quotazioni dei bookmakers sulla riuscita dell’operazione fossero davvero al ribasso.
E invece.
L’album è lungo, chiaro. Ma non tantissimo. Ci sarebbe stato in un doppio CD.
Le canzoni sono più vicine alla canzone normalmente intesa che alle suite di Ys. Certo, la durata media è di 7 minuti, quindi siamo ancora ben lontani da singoli radiofonici, ma un po’ di verbosità è stata ridotta.
La voce poi è migliorata nel timbro e forse anche nell’estensione. Si avvicina al folk nordamericano di Joan Baez o di Joni Mitchell (e alla cantautrice canadese è già stata ampiamente accostata) e ha abbandonato gli aspetti più ostici.
Gli arrangiamenti questa volta sono curati, oltre che dall’autrice stessa, da tal Ray Francesconi che ne ha arricchito e di molto lo spettro espressivo. Laddove Van Dyke Parks in Ys sembrava avere giustapposto le sue (mirabili) orchestrazioni a dei brani già ultimati, il lavoro di Francesconi è molto più integrato alla composizione della Newsom e il risultato è davvero squisito.
18 brani di altissimo livello, tutti gravitanti intorno a quel modo mai troppo lineare di scrivere musica della ragazza, che mescolano momenti intimi, con la sola arpa a sostegno (Autumn e ‘81) a episodi al limite del pop (Good Intention Parving Company), suggestive costruzioni melodiche (Occident, Go Long, Baby Birtch) o armoniche (Have One On Me, Go Long, Kingfisher). La voce poi è sempre assoluta protagonista. La Newsom canta e la musica accompagna, cesella, arricchisce, colora, ma è sempre il cantato a dare la metrica ai brani. A dire il vero alcuni momenti puramente strumentali ci sono, ma sono rari episodi.
È un lavoro davvero complesso, ambizioso e strabordante di dettagli, per cui dopo una settimana di ascolti non ho ancora finito di assimilarlo, ma il livello è stratosferico. E esagero davvero poco.

PS Notavo che Ys è uscito quando la ragazza aveva 24 anni. Un anno in meno di Herbie Hancock quando pubblicò Mayden Voyage.
Alla faccia di quelli che “i giovani musicisti non valgono niente in confronto a quelli dei bei tempi andati”.

versi prima di coricarsi

I need you to keep me straight,
When the world don't seem so great,
And it's hard enough you know
I need you to be around
When my conscience brings me down
And the world feels so obscure
I want you to be the one
Who tells me off when I do wrong,
And you know I can be bad
I need you, I need you
Say you'll stay, make my day
Now what have I done,
Was it something I said - oh dear
I need you to turn me off,
When you think I've said enough,
To the extent of being a bore
I need you to tell me no
Slap my wrists and send me home
Tell me I can't come again
Now why are you crying -
Have I gone too far - again

"I need you", The Jam

venerdì 12 marzo 2010

versi prima di coricarsi

so if the world ends
i hope you're by my side
i don't think with you here
it will be too much pain

"If the world ends", The Guillemots

mercoledì 10 marzo 2010

I Placebo, i Buzzcocks e l'Inghilterra di oggi

Chiacchierando con una persona più giovane di una quindicina di anni, mi sono trovato inopinatamente invischiato in un confronto, dal vago sapore generazionale, tra i Placebo e i Buzzcocks. Vestiti i panni del vecchio nostalgico ma ragionevole, sforzandomi di evitare la rudezza dell'autoaffermativo "sono meglio i Buzzcocks e basta", ho provato a meditare sull'argomento. Perchè, è vero, ci sono tratti comuni, la cifra stilistica di alcuni brani è simile (proto-punk graffiante, orecchiabile). Ma non ho potuto fare altro che schierarmi all'istante con Pete Shelley e soci, e relegare i Placebo, che hanno venduto 84 trilioni di dischi in più, al limbo degli emuli o dei copioni.
Intendiamoci, non che i Buzzcocks siano dei geni immortali, non hanno cambiato per sempre la storia della musica, hanno inventato poco e lasciato alcuni ricordi neppure così nobili. Ma mi piace il mondo che evocano le loro canzoncelle rabbiose, in 4/4 muscolosi e sudaticci, il sapore di public school e public houses (cioè di birra) che emanano, il genuino fascino operaio dei truzzetti inglesi, vestiti come un tramviere in ferie. Da Ever fallen in love (vedi il video) a Sixteen again, dalle scorrettissime Oh Shit e What do I get alla fin troppo sincera Orgasm addict, gli argomenti -musicali e letterari - dei Buzzcocks sono pochi ma chiari, e di una sincerità disarmante.

Per onestà intellettuale ho voluto comunque sottopormi a delle (moderate) dosi di Placebo, nella speranza di fortificarmi nella mia preferenza. Molko e compari non mi hanno deluso, sono ascoltabili e potrei anche ammettere che alcuni loro pezzi (Every you and every me, Special K) potrei sentirli in autoradio senza cambiare canale. Ma al contempo le mossette studiate, le pettinature da istrice, l'identità sessuale volutamente maldefinita, sono quanto più antitetico esiste alla proletaria furia dei Buzzcocks. I Placebo sembrano studenti di arte, deviati a inscenare un antagonismo di facciata - rivedetevi l'ignobile e caricaturale sceneggiata in cui spaccano un ampli a Sanremo - ma sostanzialmente perbene, privi di quel mordente, di quel ghigno primitivo e genuino che identificava Pete Shelley e compari. Ma mentre davo una veste razionale alla mia repulsa dei Placebo (nun me piacciono!! so' troppo paraculi!) mi sono anche chiesto se si tutta colpa di Molko & Co. Ossia se la differenza tra i Buzzcocks e loro non sia esattamente la differenza che intercorre tra l'Inghilterra pre-Thatcher, ancora sostanzialmente centrata sulla working class, sulla coscienza operaia e la Cool Britannia odierna, con gli Starbucks al posto dei fish and chips, i ristorantini fighetti in una terra che, come ricorda Kevin Kline in "Un pesce di nome Wanda" ha dato come unico contributo alla cucina internazionale la patatina fritta. Dopo tutto i Laburisti sono passati da Neil Kinnock a Tony Blair, mantenendo una facciata inconsistente e spuria, proprio come i Placebo in musica. E se ha perso la bussola il principale partito di sinistra inglese, perchè dovrebbero tenere la rotta i Placebo? E allora se il ribellismo col mascara dei Placebo, smorti figlioli di quest'epoca evanescente, è autentico come è vero l'internazionalismo del Tony BLIAR perdoniamoli, che in fin dei conti non è (solo) colpa loro.

martedì 9 marzo 2010

a riprova di quanto scritto sotto

I have my books
And my poetry to protect me;
I am shielded in my armor,
Hiding in my room, safe within my womb.
I touch no one and no one touches me.
I am a rock,
I am an island.

And a rock feels no pain;
And an island never cries.

da "I am a Rock", Paul Simon

domenica 7 marzo 2010

consigli per gli acquisti - Simon and Garfunkel, Greatest Hits



Con un po' di ritardo - ma poi chi l'ha detto che bisogna essere puntuali? - comincio a rispondere al post di luca sui consigli per gli acquisti. Non male come proponimento, meditare su cosa consiglieresti a scatola chiusa alla maggioranza dei compari tuoi. Medita medita, alla fine come disco che consiglierei proprio a tutti, facendo arruffare il pelo alla mia anima punk, storcere il naso agli amici barricaderi e soprattutto disegnando un punto interrogativo sui visi più giovani, propongo questo, il Greatest Hits di Simon e Garfunkel. Banale, o mainstream che vuol dire la stessa cosa ma fa più figo, datato, presente in ogni minima collezione di ogni fricchettone diretto in Grecia nel ventennio 70-80. Perchè allora? Perchè al di là di una singola eccezione (la discutibile "Cecilia") è una raccolta di melodie meravigliose, che ti fanno venir voglia di ringraziare Dio (se credenti) di avere le orecchie, suonata con arrangiamenti forse non geniali ma compassati ed eleganti, cantata da due voci funamboliche senza compiacimenti (provate a seguire Garfunkel su Bridge Over Troubled Water e poi mi dite). E come se ciò non bastasse, esiste un album nell'album, una doppia lettura che riempie e rende solido nel tempo il disco. Ogni canzone di Paul Simon (in versione pre-africana) è una piccola storia di solitudine, alienazione, sconfitta, lontananza, amore. Narrata con garbo, misura, poesia. America, Kathy's Song, I am a Rock, Homeward Bound, The boxer, The sounds of silence, For Emily... Prendetevi i testi, leggeteli anche senza musica e probabilmente avrete sotto gli occhi una delle più belle raccolte poetiche degli ultimi decenni. E se le rileggerete fra altri 30 anni, le poesie saranno ancora lì, intatte.

giovedì 4 marzo 2010

Liars, nuovo album

Sembra essere un periodo ricco di uscite sostanziose, questo.
Dopo il nuovo lavoro della Newsom (che ancora agogno), il 9/3 dovrebbe uscire Sisterworld, nuovo album dei Liars.
Non ho capito benissimo, succede tutto in modo troppo automatico per i miei gusti prudenti, ma collegandosi al loro sito, si scarica immediatamente il video di Scissor, uno dei brani e anticipazione dell'album. Il video è notevole e la canzone ancora di più.
Se preferite vederlo senza scaricare nulla, lo piazzo qui sotto:

mercoledì 3 marzo 2010

Canzone del giorno

Un uomo scrive una lettera a suo fratello che molti anni prima gli aveva rubato la donna. È una lettera da cui traspare tutta la stanchezza per un dissidio durato troppo tempo, il risentimento ha consumato se stesso, non c’è più voglia di tenerlo vivo, non è più così importante. Si confessa una nostalgia, si accenna ad un perdono, si ammette che forse non ne valeva la pena, forse è così che dovevano andare le cose e basta.

Sto parlando di Famous Blue Raincoat una delle canzoni più famose di Leonard Cohen che per associazione praticamente diretta mi si è ficcata in testa dopo il post dell’altro giorno di Marco.
Ve la propongo qua, diffondo il virus:

martedì 2 marzo 2010

Porco qui e porco là

Piccolo ma sentito sfogo:
maccheccavolo! Si piangono addosso, "i CD non si vendono", "il crollo del mercato", "siamo costretti a licenziare le persone", "se scarichi la musica uccidi la musica"… e via di litania.
Eppoi di un disco su cui si sa che c’è una certa aspettativa ritardi l’uscita di una settimana?
Ma dico, ma siete scemi? Io sono qui che non vedo l’ora di sentirlo, in giro è pieno di recensioni positive, nei forum il dibattito è accesissimo, su youtube le anteprime sono cliccatissime. E poi so benissimo, come sanno tutti tutti tutti, che mi basterebbe andare su google, scriverci sopra “have one on me rapidshare” per avere una lista di link che mi permetterebbero di averlo qui, su questo pc su cui sto scrivendo nel giro di 10 minuti...
E voi ne ritardate l’uscita di una settimana???
Vabbè, Johanna Newsom non è certo il disco di natale di Celentano come volume di vendita, mapporcadiquellamiseria, che vuol dire? Dite che esce il 26/2, fatelo uscire il 26/2!!! O proprio non potete fare a meno di continuare a darvi mazzate sulle palle?
Ce l’ho coi discografici, ovviamente eh.
Io stavolta resisto e aspetto, ma poi basta. E si fottano.

Why? - Elephant Eyelash

Nello scorso decennio è passata una meteora di nome cLOUDEADD che ha illuminato, con uno spettacolare album (colpevolissima omissione nel mio Meglio del Decennio) e una raccolta, il panorama musicale, ribadendo e perfezionando quell’attitudine alla de-composizione tipica del periodo, rivisitando l’hip-hop in matrice bianca, sfibrandolo e disarticolandolo in un genere impossibile da definire ma senza mai perderne il perfetto controllo.
Quel gruppo era un trio (Odd Nosdam artefice principale delle musiche, Why? e Doseone dei testi e del cantato) che esplose poco dopo la pubblicazione dell’album (Ten) e scagliò i tre componenti verso tre carriere autonome (non sempre divergenti, anzi). Why? in qualche modo era l’anima melodica del trio e in tale accezione si è orientata la sua seguente carriera, iniziata come solista e poi, consolidando il gruppo di musicisti con cui collabora, in una vera e propria band ancora a suo nome.
Dei suoi già numerosi album, questo Elephant Eyelash è forse quello che più rispetta il criterio di “regalabilità” del lotto di segnalazioni che sto pubblicando come Consigli per gli acquisti.
Si tratta infatti di un album di canzoni in senso piuttosto tradizionale: c’è un tizio che canta canzoni abbastanza orecchiabili accompagnato da musica tutto sommato ascoltabilissima.
Sia inteso che le origini non si rinnegano, almeno non del tutto e allora rimane un certo gusto per la sorpresa, per la scelta originale, per l’intermezzo aritmico e straniante, perché le linee non sono mai troppo dritte e le canzoni, anche se sono solo canzoni, hanno sempre quella venatura anomala e sgemba, che lì per lì può farti perdere un attimo la bussola, ma poi rientra gentilmente verso territori del tutto amabili e fruibili, tutto sommato rimanendo in confini godibilissimi.
Si va da arpeggi di chitarra in stile folk (Crushed Bones) a esplosioni orchestrali (Yo yo bye bye), c’è qualche intermezzo melodico (The Hoofs), spettacolari stop-and-go ritmici (Fall Saddles) e pure canzoni più tradizionali da urlare in spiaggia (Gemini-Birthday Song, Rubber Traits, Wispers Into the Other), riflessivo e strutturato divertissement (Waterfalls), allegre canzonette pop ancora inframmezzate da inserti disturbanti (Sanddollars), fino alla finale e struggente ballata suonata sulla chitarra in punta di dita.
Rispetto agli altri consigli dati finora, quest’album è probabilmente il più di nicchia e meno reperibile, ma rimane sicuramente un buon modo per fare un figurone con la pulzella di turno (non so perché, ma mi sa di musica apprezzabile dal genere femminile) o anche solo per regalarsi un po’ di musica non banale ma comunque allegra e colorata.
Poi, a chi avesse un po’ di pelo sullo stomaco in più e voglia di sentire qualcosa di un po’ più ostico e che infine non li conoscesse ancora, consiglio vivamente i cLOUDDEAD e il loro epocale Ten. Ne vale la pena.