martedì 29 giugno 2010

Scaruffeide

Allora, alzi la mano chi non ha mai letto una recensione di un disco su internet. Che sia su quotate pagine culturali o su qualche oscuro blog  di qualche oscuro figuro (questo, ad esempio), il ricorso al www per conoscere l’ultima novità di ambient croato o per sapere se vale la pena anche solo di scaricare la centesima raccolta degli Stones, l’abbiamo fatto tutti. E surfa che ti surfa, oltre agli approdi più canonici (last.fm, myspace, e similia) talvolta il destino spinge il server un qualche luogo virtuale ameno o comunque curioso, che magari adesso organizzeremo nella sidebar. Un sito cui invece si è invariabilmente indirizzati con una frequenza inquietante è il leggendario scaruffi.com, dell’omonimo Scaruffi Piero. L’ansia che assale l’internauta melomane più avveduto deriva dal fatto che se digitate qualunque, ripeto, qualunque nome, dai Green Telescope a Ed  Banger and the Nosebleeds, dagli Holy Modal Rounders a Letizia e la Band, il link a scaruffi.com c’è sempre. E non è un link a vuoto. Non esiste gruppo, solista, musicista, artista di strada, corista, session man su cui lo Scaruffi nazionale non abbia detto la sua, sovente con distruttiva severità. Come una maestrina incazzata Scaruffi dispensa voti, sovente gravemente insufficienti, senza guardare in faccia nessuno, rifilando impietoso a molti monumenti della musica critiche feroci e accordando risicate sufficienze a veri capolavori (opinione personale, quindi fallace, ok?). Per contro, esalta con peana smodati lavori discutibili di artisti che forse non passeranno alla storia (i Royal Trux, ragazzi!), si spella le mani gridando al capolavoro imperdibile per album che non sorpassano il primo ascolto, ma questa, forse, è solo la sua originalità di fronte al mio conformismo poppeggiante. Ora, lo confesso, io con Scaruffi ho un problema personale, e, sia chiaro, lui non ce l’ha con me. E avere un problema con qualcuno che non conosci, è grave. Primo, abbiamo dei gusti simmetrici, nel senso che ogni disco che mi lascia in deliquio, che alberga nella mia top ten, che è in cima ai miei sogni,  è da lui invariabilmente condannato  alla mediocrità, spesso con il corredo di pesanti rampogne. Tanto per dare un idea ecco i voti assegnati alla mia top ten da isola deserta
Siouxsie and The Banshees - Twice upon a time (non recensito ma di Siouxsie il nostro dice “Dark-punk's most overrated artist, Siouxsie has left behind very few compositions that deserve to be remembered.” Ammazza...)

REM - Automatic for the people (5)
XTC - Oranges and lemons (6.5)
Billy Bragg - Talking with the taxman about poetry (6)
Zebda - Essence ordinare non recensito
Van der Graaf Generator - Pawn hearts (8)
Robyn Hitchcock - Black snake diamond role (7)
Clash - London Calling (7)< Pogues - If I should fall from grace with god (6,5) Byrds  - Mr tambourine man (6) Icicle Works - Icicle works (non recensito) L’altro problema è la smodata invidia che nutro per lo Scaruffi medesimo. Innanzitutto vorrei avere la sua stessa prosopopea, vorrei non essere sfiorato dal penoso esercizio del dubbio al momento di assestare stilettate feroci, ma soprattutto vorrei riuscire a fare tutto quello che fa lui. Dal suo sito si estrapola una biografia per punti (chi diffidasse vada a  controllare a http://www.scaruffi.com/service/iabout.html) che recita testuale:
piero scaruffi, poeta, scienziato, storico della conoscenza e libero pensatore, e` anche:
* scienziato cognitivo
* scrittore
* poeta<
* storico musicale
* storico cinematografico
* commentatore politico
* artista visisvo
* consulente software
Ora, non so voi, ma io faccio fatica ad a buttare giù 4 righe per questo blog, riesco a sentire bene solo un paio di dischi al mese e spesso la sera crollo sul divano prima che siano le dieci e magari i miei cari mi segnalano pure di non avermi visto molto ultimamente
Mi chiedo, allora, ma come farà Scaruffi a fare tutte ’ste cose? Dove trova il tempo e le energie? Ma in parallelo mi chiedo anche, più semplicemente, come fa a disprezzare Siouxsie e i Chumbawamba e a stracciare (5/10) “Automatic for the people”? e a venerare i Royal Trux? Non ho risposte per nessuna di queste domande. Me ne torno al nostro modesto casalingo blog, alla Siouxsie di Kaleidoscope, agli XTC che adoro in blocco, a Nightswimming e Find the river. E mi rendo conto che sto benissimo così.

giovedì 24 giugno 2010

Un nuovo inno per l'Italia

In epoca di Mondiali di calcio ci tocca , come sempre, sorbirci le eterne questioni sull'inno nazionale. Diciamolo pure, fuori dai Mondiali e dalle Olimpiadi l'inno nazionale non se lo fila nessuno, tanto che infatti viene naturale proseguirne mentalmente l'esecuzione con la formazione della Nazionale che ognuno ha più stampata nel cervello (per il sottoscritto ZoffGentileCabrini, OrialiCollovatiScirea, ...) ed associare alla musica di Novaro la voce di Martellini o Pizzul o Bizzotto, sempre a seconda delle generazioni.  Al punto che, personalmente, mi ha sempre emozionato altrettanto, creando lo stesso senso di attesa  la ormai desueta sigla dell'Eurovisione (Charpentier, Te Deum). Però l'inno nazionale è anche uno dei tanti paradossi italici: possibile che la terra di Cimarosa e Bellini, Puccini e Verdi, Vivaldi e Rossini non abbia trovato nulla di meglio come musica per celebrare le solennità? E poi, intendiamoci, che cazzo vogliono dire le parole?
Insomma, ha sostanzialmente 2 difettacci: primo, è una marcetta che sembra la fine dei cartoni animati di Looney Tunes (e di questo spero si occupi Abo, sicuramente più competente, con una sapida disamina tecnica) e, secondo, ha un testo incomprensibile. Meglio così, perchè se lo comprendi e non sei un nostalgico colonialista  reduce dell'Amba Alagi ti fa vomitare. Tra coorti, elmi di Scipio (Scipione l'Africano, ossia un invasore e massacratore di popolazioni civili) e chiome da porgere da parte della Vittoria (che non è la figlia della tabaccaia), a ricordo della bella e moderna abitudine di rapare a zero le schiave, questa schifezza ottocentesca è sopravvissuta in epoca democratica solo grazie al fatto che durante l'esecrabile ventennio non era molto in voga. Ma il potpourri di richiami imperiali alla gloriosa epoca augustea in cui eravamo aggressivi invasori è davvero emetico ed è infatti strenuamente difeso dai piccoli ducetti contemporanei, e guai a chi non lo canta. Ostili per natura all'integrità della nazione, parecchi leghisti, forti della loro crassa insipienza, propongono come alternativa il "Va Pensiero" dal Nabucco verdiano, musicalmente più attraente e sicuramente più marziale. Anche qui, però, quanto a testo si casca male: non solo è criptico per cervelli istruiti (figuratevi per Cassano e Gattuso) ma, quando compreso, è evidente che parla di esuli che rimpiangono la loro terra bella e perduta,  che non è il massimo per esaltare il morale della nazione. Tra l'altro la terra rimpianta non è nemmeno l'Italia, è Gerusalemme, ma questo è oltre le possibilità di comprensione del leghista e del calciatore medio.
In sostanza o ci teniamo l'inno di Bugs Bunny in versione imperialista o, in ossequio ai rutti padani, fingiamo di essere esuli ebrei o ci scateniamo alla ricerca di un nuovo inno. Che dovrà essere come siamo, simpatico e furbetto, un po' marziale (se giochiamo contro i tedeschi dobbiamo pur spaventarli) e un po' pastasciuttaro, in omaggio all'ambiguità dell'italiota.  E allora via alle proposte. 
La mia candidata? "La terra dei cachi" di Elio e le storie tese. Bel testo, alla portata dei nostri calciatori, realista ("un totale di due pizze e l'italia è questa qua"), melodia accattivante ed orecchiabile, non richiede un intera banda musicale per la sua esecuzione e molto molto ironica. E poi parla anche di sventolare il bandierone allo stadio, attività cui è precipuamente dedicata l'esecuzione dell'inno.
Alternative:
Dolce Italia - Eugenio Finardi. Sdolcinata, parla in realtà malissimo degli italiani, troppo melodica e poco solenne. Potrebbe cantarla Iugìn da solo allo stadio, come alcuni tenori americano fanno, ma non ci darebbe quella gagliardia che cerchiamo. Scartata.
Un italiano vero  - Toto Cutugno. La quintessenza dell'italianità stile raiuno, della italietta dell'autogrill, delle lacrime da coccodrilli professionisti, dei sentimenti da strapaese. Scartata.
La strana famiglia - Jannacci & Gaber. Ecco un'alternativa percorribile, se suonata lenta assume un tono serioso e il ritornello potente inietterebbe di certo morale ed energie nei quadricipiti dei nostri calciatori. Inoltre identifica perfettamente l'equipollenza tra paese reale e paese televisivo, 20 anni prima di Videocracy (peraltro meraviglioso).
Allora, via anche alle vostre candidature, diamo un nuovo inno a questa povera Italietta! E Abo, per favore, il saggio su Novaro!

mercoledì 23 giugno 2010

The Chemical Brothers - Further

Un altro dei termini ricorrenti quando si parla di musica è “bollito”.
È l’epiteto che si guadagnano i musicisti o i gruppi che, dopo avere raggiunto un significativo successo, si adagiano mollemente sugli allori e continuano a produrre album seriali che, ben lungi dal proseguire un qualche percorso di ricerca che li aveva resi quantomeno originali agli esordi, non fanno altro che cercare di consolidare il successo (leggi: le entrate finanziarie) della star.
Ascolti uno di quei dischi e lo senti lontano un miglio, è roba bollita, con la consistenza flaccida di un cotechino e l’appeal gustativo di un finocchio. Ci sarebbero tanti motivi che giustificano questi dischi, l’età che avanza, la pigrizia dell’arrivato, gli obblighi contrattuali che non rispettano i tempi di gestazione artistica e così via.
Ai Chemical Brothers era già successo: alfieri della musica elettronica e esponenti massimi di quel big-beat che caratterizzò gli anni ’90, ultimamente si erano ridotti a pubblicare dischi insulsi e ripetitivi che cercavano di replicare le formulette vincenti dei primi album senza nemmeno sfiorarne la bellezza innovativa.
Per quanto detto sopra, non era stupefacente tutto sommato: i due ragazzotti agli inizi erano riusciti ad impressionare il mondo con quattro macchine di recupero grazie al loro entusiasmo e ad un’ottima preparazione tecnico-musicale. Poi, diventati una discreta macchina da soldi per la Virgin, si sono trovati a disporre di attrezzature che neanche alla NASA e si sa, spesso il troppo stroppia, e i due ragazzotti ormai cresciuti hanno ceduto alla tentazione, diventata troppo facile da seguire con quel popò di armamentario, di produrre il minimo indispensabile con il minimo sforzo. E si sente: bolliti. Basta la parola.
Con queste premesse l’approccio al nuovo album non poteva essere peggio prevenuto. Se mi avessero proposto di scommettere, ci sarei andato liscio quanto su una magra figura dell’Italia nel girone iniziale del mondiale di calcio: sicuramente una ciofeca.
E invece.
E invece lo sto ascoltando a ripetizione e mi pare sempre più bello e intenso. Niente nostalgie per il passato, niente derive commerciali. Un disco onestissimo e molto ben prodotto, con una giusta dose di umiltà da un lato che ci mette al riparo da spocchiose cadute di stile nascoste dietro un “io sono l’Artista e faccio come mi pare” ma con pure una sicurezza dei propri mezzi che evita le strade smaccatamente più semplici.
Per dire, il primo colpo di batteria (o quel che è) arriva dopo oltre 7 minuti, al minuto 2 del secondo brano. E per gli alfieri del big-beat non è affatto poco, soprattutto pensando come si comprano i dischi: ascolto frettoloso alle cuffie del centro commerciale. Se ti piglia subito bene, altrimenti passi all’altro album.
Tutto il disco è davvero ad alto livello (non altissimo eh, ma tant’è), ma gli episodi migliori a mio avviso sono l’iniziale Snow, senza batteria appunto, sorretta da una voce femminile (anonima, stavolta non ci sono neanche le solite grandi ospitate) che ripete le stesse 2 frasi e tutto un gioco di fruscii, sibili e qualche nota a reggere la struttura.
La successiva Escape Velocity è poi un’epopea di quasi 12 minuti con un inarrestabile saliscendi emotivo tra momenti di pura house, frenesie ritmiche e momenti di inaspettata quiete.
Poi Horse Power, qui sì, un vero trionfo big-beat, da sparare a tutto volume, con quella voce in vocoder che ne ripete il titolo ossessivamente (richiamo alla ketamina, farmaco anche veterinario allegramente abusato dai clubbers) e nitriti di cavallo che emergono tra riff ossessivi e ritmi violentissimi.
Insomma, la notizia è buona: oltre ad avere scovato un buon disco da pompare sul fidato stereo (va ascoltato ad alto volume, se no non ne vale la pena) la conferma che non sempre l’età porta obbligatoriamente allo sfacelo: con un po’ di buona volontà si possono fare ancora grandi cose.

giovedì 17 giugno 2010

Just Like Heaven - A Tribute To The Cure

Forse in fondo è solo questione di ritarare le aspettative.
Perché tante volte, quando ti aspetti qualcosa, tendi a diventare troppo critico nei confronti dell’oggetto e a sminuirne gli eventuali altri aspetti positivi.
Cioè, uno ti dice ora ti faccio vedere un bel dipinto impressionista, poi quando lo vedi ti accorgi che impressionista non lo è neanche per niente, allora dici che schifezza, quando magari è un bel quadro, puntinista magari, ma tu sei deluso perché ti aspettavi Monet, volevi vedere forme sfocate e colori slavati, invece ti sei trovato di fronte pallini di tutti i colori e ti sei incazzato. Però era Seurat, cavoli, guarda che è proprio bello. Ma tu no, che schifezza.
Pensavo a questo qualche giorno fa, mentre ascoltavo il disco omonimo dei Doors e avrei voluto dire a Marco no guarda che è un gran bel disco. Certo, ti avevano detto che Jim era un genio, un poeta e ti sei trovato di fronte liriche da quattro soldi. E hai ragione, ma tu paragonalo a Michael Stipe per dire, non a Yeats. E forse ti avevano detto che ascoltare la loro musica era tipo un trip lisergico e tu invece ti sei solo rotto le palle. E hai di nuovo ragione.
Ma tu spoglia ‘sti Doors da tutta quella fama alternativa, ribelle, insolente che li hanno resi insopportabili a noi e idoli dei tamarri che vanno a farsi le canne sulla tomba di Jim, mitico Jim. Ascoltali come se li ascoltassi per la prima volta in vita tua, come se ascoltassi qualcosa di nuovo, per quanto l’album abbia abbondantemente superato la quarantina.
Vedrai che ti spiaceranno di meno. Forse. Sappimi dire.
Comunque:
penso a me che ascoltavo i Doors qualche giorno fa, mentre invece sto ascoltando Just Like Heaven – A tribute to The Cure, una raccolta di 16 brani dei Cure reinterpretati da altrettanti gruppi/musicisti.
E scopro che si tratta di gradevolissime canzoni pop.
Cioè i Cure si erano costruiti quell’immagine dark che li ha resi famosi, abiti scuri, capelli cotonati, bambine orfane, suicidi, malesseri, spleen… insomma tutti i deprimenti ingredienti fondamentali nella cucina di quel genere.
Allora uno si mette lì, li ascolta, e si accorge che sotto neanche 2 millimetri di quella patina si celano invece delle canzonette pop, 4/4, strofa-ritornello, giri di quattro accordi e cose così. Vaccagare allora, tutto qui? E così i Cure finiscono nel cestino dei rifiuti, sotto la voce fregature.
E invece:
riascoltando questa raccolta, interpretata da gente che tutta quella patina lì probabilmente non ce l’ha mai avuta (dico forse perché ne conosco giusto un paio), si rivelano per quello che sono nella luce migliore possibile: canzoni pop davvero belle.
C’è da dire che quasi tutti i brani scelti sono quelli che già ai tempi fecero inorridire gli estimatori più dark, che li bollarono quasi come dei tradimenti, ma la vena compositiva di Smith&Co. era quella. Ottima. Pop, forse, non dark, ma ottima.
Non ci giro intorno: questa raccolta non so manco se si riesca a trovare in giro, come CD intendo.
Io l’ho scaricato da qua.
E questa è la lista di brani e interpreti:
1. Joy Zipper - Just Like Heaven
2. Tanya Donelly & Dylan In The Movies - The Lovecats
3. The Brunettes - Lovesong
4. Kitty Karlyle - In Between Days
5. Dean & Britta - Friday I’m In Love
6. Luff - Jumping Someone Else’s Train
7. The Submarines - Boys Don’t Cry
8. Elk City - Close To Me
9. The Rosebuds - The Walk
10. Elizabeth Harper & The Matinee - Pictures Of You
11. Cassettes Won’t Listen - Let’s Go To Bed
12. Devics - Catch
13. Julie Peel - A Night Like This
14. The Poems - 10:15 Saturday Night
15. Grand Duchy (Violet Clark & Black Francis) - A Strange Day
16. The Wedding Present - High

mercoledì 16 giugno 2010

How To Destroy Angels

Trent Raznor non deve avere un carattere molto facile. Almeno per i discografici.
Non ho idea di quale siano le dinamiche, di chi faccia il difficile e chi esageri nelle pretese, fatto sta che da un po’ di tempo in qua, il buon Trent preferisce pubblicare il suo lavoro gratuitamente su internet piuttosto che fare guadagnare un centesimo alle case discografiche.
Dopo avere accantonato (definitivamente?) i Nine Inch Nails, Raznor ha iniziato a seguire alcuni progetti laterali, l’ultimo dei quali è questo How To Destroy Angels che vede coinvolti anche la moglie Mariqueen Maandig (già cantante dei West Indian Girl, che personalmente sconosco) e del suo abituale fido braccio destro Atticus Ross.
Ne è venuto fuori un EP (messo a disposizione per il download gratuito sul sito ufficiale) cupo come tutte le creature del nostro, ma più vicino ai Massive Attack degli ultimi album che ai NIN. Un bel disco comunque, in cui la voce femminile stempera e ammorbidisce il sound altrimenti tetro in cui sono le basse frequenze a farla da padrone, con influssi che vanno dal trip-hop (The Space In Beetween), a echi industrial (Parasite) a un certo funk malato (Fur Lined), techno (BBB, The Believers) , fino ad ammorbidirsi nella conclusiva A Drowning che ricorda un po’ certi Cure di Disintegration.
Viene via a niente, dategli un ascolto.
Qui sotto il video di The Space in Between, tanto per farvi un'idea:

How To Destroy Angels: The Space in Between [HD] from How To Destroy Angels on Vimeo.

sabato 12 giugno 2010

La famiglia Sorrenti

L'Italia è sicuramente uno dei paesi in cui essere figli di, fratelli di, parenti di, amici di aiuta la fortuna professionale e olia i rugginosi meccanismi della carriera. E se molti, troppi, piazzano i loro famigli a dar sfogo alla loro dubbia arte, magari dopo averli coatti alla carriera artistica, non tutte le famiglie di artisti vengono per nuocere. Luca ha giustamente rievocato l'inizio poco conosciuto ma interessante della carriera di Alan Sorrenti; allora già che ci siamo diciamo anche che Alan ha una sorella (Jane, in arte Jenny), preziosa vocalist che ha inciso, da sola e con i Saint Just, alcuni album di buon prog italiano. Melodie folk contaminate da venature classicheggianti, su tutto la voce da virtuosa della Sorrenti, ricordano un po' gli inglesi Renaissance e Pentangle. Ascolto non imprescindibile, ma tutto sommato gradevole.
PS: in epoca in cui i Kevin e le Sharon nascono come funghi anche nella remota provincia, precisiamo che Alan e Jenny devono il nome non all'esotismo improvvisato di un genitore esterofilo, ma da una mamma gallese

venerdì 11 giugno 2010

Alan Sorrenti - Aria

Già, Alan Sorrenti, proprio lui. Quello di Figli delle stelle e Tu sei l’unica donna per me. Vabbè, per averlo davvero presente forse occorre avere qualche pelo grigio ormai, dato che stiamo parlando dei suoi più grandi successi e che risalgono al 1977 e 1979.
Quelle due canzoni lo consacrarono forse per sempre ad autore di canzoni pop da juke-box (esistevano dei cosi così ai tempi, che tu infilavi una monetina e potevi fare suonare un disco. Un 45giri, una canzone insomma) e il fatto di incarnare perfettamente una certa estetica disco-pop anni ’70 lo ha relegato a protagonista di serate amarcord o a rappresentazione allegra dei “come eravamo”.
Difficile quindi sospettare che il buon Alan fosse stato capace di cose eccelse.
E invece.
Il suo disco di esordio, Aria (1972), è sorprendentemente bello, complesso, audace e sofisticato. Il brano omonimo è una suite di oltre 19 minuti che ai tempi del vinile occupava l’intera prima facciata. Lo scaffale in cui inserire questo brano è quello del progressive, ma fortunatamente (per i miei gusti) siamo abbastanza lontani da certe evocazioni fantasy-medievaleggianti che normalmente caratterizzano questo tipo di musica. A farla da padrona in questo brano è la voce, utilizzata virtuosamente come strumento espressivo in modo quasi incredibile. Il paragone più immediato è sicuramente all’inarrivabile Tim Buckley.
Le musiche invece, pur mantenendo una loro originalità, sono più dalle parti dei Van Der Graaf Generator o, per restare più vicini, alla PFM delle Impressioni di settembre.
Date queste coordinate comunque l’ascolto di un pezzo così è in grado dare emozioni tutte sue, arrangiato e suonato magnificamente da ottimi musicisti (Jean Luc Ponty, violinista anche al servizio di Frank Zappa, Albert Prince al piano, e alle percussioni un certo Antonio Esposito che non si faceva ancora chiamare Tony) e come dicevo vocalizzato magistralmente dallo stesso Sorrenti.
Il resto dell’album, pur rimanendo ottimo, è di tono leggermente inferiore. Tre canzoni di durata media, più rilassate e più orientate alla tradizione folk e sinfonica, con sempre la voce a farla da padrona.

Questo disco mi pare che sia stato recentemente rimasterizzato, o comunque si trova abbastanza facilmente a prezzi decenti. Se vi capita dategli una chance, se la merita.

giovedì 10 giugno 2010

Plastic Ono Band

Alcuni di noi hanno avuto un rapporto un po’ conflittuale con la figura di John Lennon. Io sono cresciuto musicalmente negli anni ’80, nel senso che in quel decennio ho avuto tra i 10 e i 20 anni ed è lì che ho iniziato a scoprire la musica e i suoi protagonisti.
Quando ci ho avuto a che fare quindi, John Lennon era già una leggenda del passato e come dicevo il sentimento che alcuni di noi provavano non era del tutto positivo.
Troppo facile apprezzare John Lennon. Questo era il punto, credo. Si era in quell’età in cui è normale, forse addirittura sano, essere iconoclasti, e quello là coi suoi occhialini tondi era un bersaglio troppo ben esposto per lasciarcelo sfuggire.
Si partiva dai Beatles naturalmente. Della coppia Lennon/McCartney, John secondo una ben diffusa concezione era ritenuto l’anima geniale, quello che andava fuori dagli schemi, mentre Paul più in quadrato e convenzionale era il preciso ed ordinato lavoratore.
A noi questa cosa però non andava giù, era frutto di una visione superficiale ed ingenua della musica. McCartney era un vero genio, capace tra l’altro di tradurre in splendido pop delle idee da cui chiunque altro non sarebbe stato in grado di tirare fuori altro che polpettoni indigeribili. E John faceva parte della coppia o ne era l’alter-ego in certi casi, ma in ogni caso per nulla superiore.
E la prova era palese, e si traduceva in 2 canzoni: Imagine e Give Peace a Chance. John, separatosi da Paul aveva prodotto quelle due brutture che erano palesemente molto inferiori alla produzione dei Beatles.
Precisiamo: non che oggi io pensi che Imagine sia così brutta, quello che ci stava sul gozzo era lo sproporzionato successo commerciale e soprattutto emotivo che aveva quella canzone zeppa di ingenui banalità. Troppo poco sofisticata per i nostri gusti.
Poi il successo della sua immagine tra fricchettoni e post-hippie: troppo amato da chi noi si snobbava per entrare nelle nostre simpatie.
Insomma, John Lennon non rientrava tra i nostri miti (e non starò a dirvi quali invece ci rientravano, la mia predisposizione all’autoflagellazione ha un limite).

Tutto questo blablabla è solo per dire che ultimamente mi sono procurato l’album omonimo della Plastic Ono Band. Ed ho riscoperto che Lennon era davvero bravo e che anche tra quello che ha fatto dopo i Beatles c'è del buono. Questo album, per dire, è veramente molto molto bello.
Lo conosco ancora poco per poterne parlare approfonditamente, ma contiene una bella carrellata di pezzi notevolissimi. Alcune sofferte (l’iniziale Mother, Remember), altre più militanti (Working Class Hero), altre più semplici (Isolation, Love, la bellissima Look at Me), ma sempre in quello splendido bilico tra semplicità pop e profondità sperimentale che caratterizzò gli ormai ex Beatles (I don’t believe in Beatles, dice nella risolutiva God).

lunedì 7 giugno 2010

Dischi da isola deserta - il mio listone

Robert Wyatt - Rock Bottom
Perché questo è il mio album preferito. Perché ogni volta che lo ascolto riesce ad emozionarmi e a darmi sensazioni che nessun altro disco è in grado di dare. Ascolto da centellinare, però, perché ho come il timore che possa perdere smalto. Per questo motivo potrebbe violare il requisito della durabilità, ma è talmente bello che io me lo porto comunque.

Can - Tago Mago
Perché con questo disco ho scoperto che parlare di kraut-rock non era solo un atteggiamento da salotto snob, ma pure gran bella musica suonata in modo perfetto e trascinante, ma sufficientemente sghemba da non appiccicarsi troppo alla memoria. E poi perché qui c’è una delle sezioni ritmiche più fighe che io abbia mai sentito.

Charles Mingus - The Black Saint and the Sinner Lady
Perché questo probabilmente è un disco infinito. Ne avevo già parlato qui. Ora dirò solo che si tratta di un’opera talmente sofisticata, stratificata, eclettica, varia, che non mi basterebbero i 2 anni per digerirla tutta. Ah, naturalmente è anche bellissimo, altrimenti non me lo porterei di certo.

Autechre - Incunabula
Perché pur nel mezzo del panorama tropicale un po’ di sonorità elettroniche possono rivelarsi adattissime. Questo è uno dei dischi più rilassanti e piacevoli che conosca. Da mettere su in quei momenti di pace in cui si desidera farsi trascinare via.

cLOUDDEAD - Ten
Perché è semplicemente bellissimo e ancora ogni volta che lo ascolto si rivela sorprendente.

Joanna Newsom - Have One on Me
Perché secondo me lei è una delle cose più belle che siano uscite negli ultimi anni, e perché i suoi dischi sono un profluvio di idee, invenzioni, variazioni sempre di gusto bellissimo. Se scelgo questo invece che il forse leggermente più bello Ys, è perché qui c’è ancora più varietà. E poi si tratta di un disco triplo, così ci guadagno in tempo d’ascolto.

Sufjan Stevens - Illinoise
Perché su un isola deserta ci va anche un po’ di allegria e questo è uno dei dischi più festosi che conosca, con i suoi cori da cheer-leaders e fanfare squillanti.

Miles Davis - Miles Ahead
Perché Miles Davis è imprescindibile, lo trafugo pure nelle compilation estive da viaggio in famiglia (dove metto la roba che può piacere un po’ a tutti) e ci mancherebbe che debba rimanerne senza per un paio d’anni. Di tutta la sua lunghissima carriera questo disco rappresenta al meglio uno dei momenti più felici.

Fabrizio De Andrè - Non al denaro non all’amore né al cielo
Perché almeno un po’ di lingua italica vorrei portarla con me, e Faber per quanto mi riguarda ne è stata l’espressione più alta. Se scelgo questo disco è perché tra quelli suoi che mi piacciono è in fondo quello che conosco di meno.

Mozart - Concerto per clarinetto in La maggiore, K. 622
Perché voglio fare come Denys Finch Hatton, il Robert Redford de La mia Africa che ascoltava l’adagio di quest’opera per mantenere il legame con la civiltà. E perché è davvero sublime.

giovedì 3 giugno 2010

La mia isola deserta

e voilà, pronto a partire.
Siouxsie and The Banshees - Twice upon a time
REM - Automatic for the people
XTC - Oranges and lemons
Billy Bragg - Talking with the taxman about poetry
Zebda - Essence ordinare
Van der Graaf Generator - Pawn hearts
Robyn Hitchcock - Black snake diamond role
Clash - London Calling
Pogues - If I should fall from grace with god
Byrds  - Mr tambourine man
e se uno di questi si rigasse nel viaggio Icicle Works - Icicle works

martedì 1 giugno 2010

I dischi da Isola Deserta

Oggi faccio l’ennesima proposta di rubrica, i Dischi da isola deserta.
L’idea non è mia, e nemmeno il titolo. Quest’ultimo l’ho preso da BLOW UP, l’idea originale forse non è neanche loro, ma per quel che ne so gliela si può pure attribuire.
L’idea è quella di indicare i 10 dischi che si porterebbero con sé in un isola deserta, pensando che quelli sarebbero gli unici che ci sarà dato di ascoltare per un lunghissimo tempo (si lo so: “e che impianto ci sarebbe su un’isola deserta? E da dove arriva l’elettricità?”. Dai, sospendiamo l’incredulità, ok?). Poi, al di là dell’isola, uno può immaginarsi la situazione che vuole, la domanda a cui rispondere è: “quali sarebbero i 10 dischi che vorresti avere se non potessi avere che quelli per molto tempo?”.
Chiaramente una lista del genere avrà diversi punti in comune alla lista dei “10 dischi preferiti in assoluto” (apropò, lo famo un post così?), ma la differenza fondamentale è la durabilità degli album. Cioè, immaginandosi di avere solo quelli a disposizione per 2 anni, occorrerebbe essere abbastanza sicuri che possano reggere ad un ascolto molto molto ripetuto. Quindi, magari tra i nostri best-of-ever compare quel disco in cui tre note vengono ripetute per 70 minuti. Ecco, chiedetevi se, al di là del vostro giudicarlo un capolavoro, immaginate di poterlo ascoltare un botto di volte senza stufarvi.
Poi magari nessun disco reggerebbe una simile prova, ma il concetto della lista è quello, non facciamo i pedanti.
Ah, non stiamo a mettere nessuna regola rigida, ci mancherebbe, ma siamo ragionevoli: l’Opera Omnia di Beethoven sarà anche stata pubblicata come cofanetto unico, ma non vale.
Come generi invece vale qualsiasi cosa, basta che suoni su un lettore cd, giradischi, grammofono, iPod…

Infine, come informazione generale: quelli di BLOW UP ci hanno pubblicato un libro con la raccolta delle scelte di 116 musicisti/gruppi. Se vi interessa il libro è questo.