martedì 24 maggio 2011

Okkervil River - I Am Very Far

Gli Okkervil River sono l'unico gruppo che si possa vantare dell'ambitissimo titolo di "Unico gruppo di cui io possieda una maglietta". Giuro, dei tanti gruppi che conosco e apprezzo, questo è l'unico per cui mi sia mai passato per la testa di comprare una maglietta. Sarà che mi piacciono molto i disegni delle copertine di William Shaff o che mi sembrava figo esibire il mio apprezzamento per questa band, fattostà che ce l'ho. E questo renderà del tutto faziosa ogni mia affermazione successiva.

Quest'album mi piace un sacco.
Questa dichiarazione, oltre a essere praticamente tautologica, date le premesse sopra, è anche piuttosto originale, dato che a sentire in giro questo album non ha riscosso un gran successo di critica (italiana perlomeno).
Il fatto è che a 'sto giro gli Okkervil River hanno decisamente cambiato rotta, abbandonando il loro stile folk-rock piuttosto quadrato e orecchiabile, per deviare verso strutture e arrangiamenti più compositi, dalle parti di Arcade Fire o New Pornographers, per dire.
Pare che sia stato un colpo di testa del leader della band, Will Sheff[1], che stufo del suo stile accessibile ha deciso di fare musica che potesse piacere solo a lui, fregandosene dell'eventuale apprezzamento del pubblico. L'ho saputo dopo averlo ascoltato e apprezzato, ma a me questa presa di posizione avrebbe messo subito in buona luce l'album: ho simpatia per qualsiasi atteggiamento anticommerciale.
Alla fine devo dire che il disco è in effetti un po' prolisso e che perde un po' di traino ad un ascolto completo. In altre parole mi sono sorpreso distratto a pensare ai fatti miei senza dargli più retta, lasciandolo in sottofondo. Questo di per sé è un difetto. Ogni volta però, quando riagganciavo l'attenzione mi ritrovavo immerso in musica gradevole e non banale, sempre di buon livello.
Per cui: se non conoscete gli Okkervil River, non partite da questo album, che per il momento è decisamente anomalo rispetto al loro stile. Vi consiglio Black Sheep Boy o The Stage Names.
Se invece li conoscete già, procuratevelo che è bello, non date retta alle critiche.

[1] Sì, il leader è William Sheff, il disegnatore delle copertine è William Shaff. Sheff-Shaff, Sheff-Shaff.

Ah, l'immagine che ho sulla maglietta è questa. Figa vero?

venerdì 20 maggio 2011

Erotismo, poesia, anarchia - la clamorosa modernità di Georges Brassens.

Georges Brassens lo ascoltavano i miei. Mi ricordo ancora, nella loro collezione, i vinili spessi e pesanti e le copertine tutte invariabilmente marroncine con questo curioso individuo con la pipa e l'aria furbetta. La musica era anche essa datata, con formazione fissa a 2 chitarre e contrabbasso. Nell'iconografia generale ricordava  più commissario Maigret che un cantante e, comunque, non era decisamente cosa "da giovani". Poteva anche essere simpatico il vecchiettino francese, ma non rientrava nei miei gusti dell'epoca. Come poteva rientrarci uno che era nato nel 1921, che a differenza dei suoi emuli italiani non aveva mai usato (e forse nemmeno visto) strumenti elettrici, ma in compenso era già morto da tempo?
Ieri ho acquistato un triplo cd che contiene i suoi primi 6 LP, che peraltro ben ricordavo dagli ascolti su vinile e, complice forse una miglior comprensione dei testi, sono rimasto incantato dall'attualità delle sue opere. Le sue canzoni, melodicamente elementari, hanno un poetica semplice ma fortissima che mescola vette di lirismo assoluto e momenti scherzosi, prendendosi gioco scanzonato della vita e della morte. In tutto Brassens c'è un amore incondizionato per la vita in tutte le sue forme e le sue gioie, che porta ad una spaventosa bellezza, un coraggio incendiario, una negazione ostinata del compromesso. 
C'è una carnalità assoluta, una sessualità innocente, primitiva e paritaria in brani come "Dans l'eau de la claire fontaine" - che da sola è più erotica di tutte foto di Hamilton o Dahmane messe assieme - "La nonne", "Brave Margot", in cui descrive, con una grazia da raffaellita i ragazzi di un paesello che si ferma per guardare le tette di Margot che allatta un gattino.
C'è una demolizione sistematica delle istituzioni ("Le gorille", che, attenzione, è sua, non di De Andrè, "Hecatombe"), della Storia dogmatica ("La guerre du 14-18"), della società perbenista ("la mauvase reputation", "la mauvaise herbe", "le mauvais sujet repenti", quante volte torna l'aggettivo "mauvais", eh?)
C'è una critica feroce alla religione ed un irredimibile, positivo ateismo in ("Le mécreant",  "L'assassinat", "Je suis un voyou") e c'è l'ossessivo scherno alla morte ("Oncle Archibald", "Le fossoyeur").
In sostanza un gioioso, ribaldo, cane sciolto, anarcoide, allegro, ottimista, che sapeva parlare al contempo di cosce e di lacrime, di fiori e di chiappe, con uguale intensità ed eleganza. Ha cantato di suore licenziose e di adulteri, di prostitute e di sbronze, di ladruncoli e poliziotti (lui tifava ladruncoli, ovviamente) senza mai cadere nel cattivo gusto ma senza mai negarsi il diritto di dire quello che voleva. In "Hecatombe" racconta di una rissa tra prostitute e poliziotti in cui le donne mettono in fuga "gli sbirri" a colpi di tette mentre lui, da buon cliente, le incita dal balcone a menare gli agenti e si compiace per la vittoria finale. La scrisse nel 1952. Sì, avete letto bene, 1952! Provate ad andarla a proporre oggi alla nostra bella società liberata. Nella sua compostezza di modi, nel suo aspetto démodé, Brassens è ancora più che mai attuale (chi non vorrebbe un po' meno preti ed un po' più di gioia panica nella nostra vita?) anche perché non c'è più stato nessuno che ne avvicinasse il talento ed il coraggio. In Italia l'hanno tradotto ottimamente Nanni Svampa, Fausto Amodei e De Andrè, ma la fruizione dell'originale resta la cosa migliore. Se voleste cominciare a farvi una buona idea del soggetto, www.georges-brassens.com, con tutte le liriche e molti video dell'epoca è un ottimo punto per cominciare.

domenica 15 maggio 2011

The Unthanks - Last

È un disco indubbiamente fuori stagione. Un disco come questo è l'ideale durante la stagione fredda, da ascoltare affacciati alla finestra del proprio cottage con in mano una tazza di tè caldo, osservando i nostri amati foxhound che giocano rincorrendo una beccaccia in giardino, e, oltre il muretto in pietra, la brughiera su cui sale la nebbia al tramonto.
Scemenze a parte, questo disco evoca almeno l'immaginario di quelle atmosfere lì, e non solo perché le Unthanks sono due sorelle che arrivano proprio dalla campagna del nord Inghilterra, ma soprattutto perché il genere di musica che fanno ben si adatta a quegli scenari.
Musiche malinconiche, lente e molto melodiche, cantate ora a due voci, ora a voci alternate dalle due sorelle, accompagnamenti sofisticati e non invadenti, ritmi lenti e sognanti.
Qualche tempo fa (qualche??? Parlo dei tempi del David Sylvian di Secrets of the beehive, quasi 25 anni!) adoravo questo genere di musica, su un album così avrei speso pomeriggi interi di spleen adolescenziale. Ora sono un po' più tiepido nei confronti di questo genere, trovo che sia una bella sfumatura della musica, ma troppo spesso un po' troppo ruffiano, troppo abile a toccare corde facilmente sensibili delle nostre emozioni.
Però, tutto sommato pur prendendolo cin atteggiamento guardingo e sospettoso, devo ammettere che le due sorelline riescono a produrre belle canzoni, piacevolissime ballate che si fanno ascoltare volentieri quando si vogliono distendere un po' i nervi.
In rete è pieno di assaggi della loro musica. Datemi retta: ascoltatele e procuratevi quest'album. Al peggio può sembrarvi un po' lagnoso, ma solo se questa è l'impressione che avete dell'intero genere a cui appartengono, altrimenti è molto difficile che possa non piacervi.

venerdì 6 maggio 2011

J Mascis - Several Shades of Why

Scrivo un po’ poco da queste parti ultimamente. Non mi piace scrivere male di quel che ho trovato brutto e faccio una fatica enorme a descrivere ciò che non mi ha particolarmente colpito e in effetti è capitato che ultimamente gli ascolti oscillassero tra il “non mi piace” e il “non mi dice un granchè”, da cui la latitanza…
Però oggi ho sentito questo disco. Si tratta del lavoro solista di J Mascis, il prepotente leader dei Dinosaur Jr, una band che ha fatto della violenza di suoni sporchi e duri un marchio di fabbrica.
In questo disco invece il capelluto cantante&chitarrista imbraccia la chitarra e canta. Punto.
Poi, vabè, c’è anche qualche seconda voce (Sophie Trudeau su tutti) e qualche altro ospite, ma comunque tutto il disco si riduce fondamentalmente a quei due ingredienti lì, chitarra e voce.
Come in spiaggia, se il chitarrista di turno si fosse portato pure un amplificatore e se non fosse sempre costretto a cantare Margherita e Albachiara.
Ah, si, certo: e se avesse un talento enorme.
10 canzoni bellissime, che in bilico tra folk e rock, scivolano spesso verso il rock, come i Dinosaur Jr spogliati del casino frastornante. Che sembra ovvio pensando a chi è l’autore, ma l’effetto rimane comunque molto molto bello. C'è pure qualche assolo di chitarra, merce che sta timidamente tornando in voga.
Unico neo: è troppo corto, meno di 40 minuti, quando uno vorrebbe poterne avere molto di più.
Scrivo queste righe dopo averlo sentito solo una volta, ma è una di quelle occasioni in cui mi accorgo al volo di avere a che fare con qualcosa di raro, talmente bello da farmi dire: “ah sì, questo sì, ne devo assolutamente parlare sul blog!”.

Concludo, perché merita, con una bella foto del bell’autore. Imprescindibile:

domenica 1 maggio 2011

Ciao Poly Styrene - Donna vera, non c'è dubbio, e pure atipica.

Aiuto! Il mio pantheon punk si sta inesorabilmente trasformando in un popolatissimo cimitero. Se ne andata anche Poly Styrene, e posso capire che a molti il nome dica poco. Punk della prima ora, voce degli X-Ray Spex, mezza scozzese e mezza somala, Marianne Elliott Said, in arte Poly Styrene, ha avuto, a dispetto della scarsa fama, un ruolo importante e merita un posticino nemmeno secondario tra le icone del punk. Piccolina, certo non graziosissima e nemmeno ammaliante, si è ritagliata un ruolo di front-girl atipica, ricodificando il ruolo riservato alle donne nella musica pop.  Antisessuale senza essere androgina - famosi le bretelle e l'apparecchio dentario sfoggiati nei concerti -, aggressiva senza essere maliarda, molto esplicita nei testi senza essere cinica. Non una seduttrice alla Siouxsie, non una mangiauomini stile Slits, non una teatrante alla Nina Hagen, Poly ha cercato di puntare il dito contro il consumismo, i clichès sessuali e di rendere scoperto il "gioco" del punk. L'ha fatto supportata da un gruppo di cui non ricorderemo le doti melodiche ma solo un pugno di canzoni brevi e feroci, con il cantato distorto della Poly ed il sax di Lora Logic (e poi di Steve Rudi) a connotarne pesantemente il sound. Per capirla e renderle merito, valgono il testo e la musica di "I am a poseur". Testo attualissimo, musica onestamente passatella.  Ciao Poly.

I am a poseur and I don't care
I like to make people stare
I am a poseur and I don't care
I like to make people stare

Exhibition is the name
Voyeurism is the game
Stereoscopic is the show
Viewing time makes it grow

My facade is just a fake
Shock horror no escape
Sensationalism for the feed
Caricatures are what you breed

Anti-art was the start
Establishments like a laugh
Yes we're very entertaining
Overtones can be betraying