venerdì 23 novembre 2012

The Flaming Lips and Heady Fwends


[Vabbè lo so: le accuse di fanatismo a questo punto si fanno assolutamente fondate, ma non posso farne a meno, quando sento robe come questa mi scappa di raccontarle.]

I Flaming Lips ne hanno combinata un’altra delle loro.
Innanzitutto hanno fatto un disco, e vabbè, è il loro mestiere. Questo disco, un album doppio nella versione in vinile, contiene brani scritti in collaborazione con gli artisti più disparati, da Erykah Badu a Nick Cave, da Yoko Ono & Plastic Ono Band a Ke$ha[1], da Bon Iver ai Lighting Bolt[2], a Chris Martin dei Coldplay e diversi altri.
Beh il disco è piuttosto bello, ma ne parlo poi dopo, perché ora mi preme descrivere l’operazione commerciale/caritatevole che hanno sviluppato a riguardo.
Poco prima della pubblicazione dell’album, i Flaming Lips scoprirono che Jack White, in occasione del Record Store Day, stava per pubblicare un singolo in vinile contenente del liquido blu all’interno. Il vinile poi sarebbe stato di materiale trasparente, per cui il liquido blu avrebbe costituito un bell’effetto sul piatto rotante.

I Flaming Lips a questo punto hanno l’ideona e rilanciano: mettere in vendita un’edizione speciale del loro disco contenente, senti un po’, il sangue dei musicisti che ci hanno lavorato!
10 pezzi a 2.500$ l’uno, il ricavato in beneficienza (per gli stessi enti destinatari dell’iniziativa dei nomi dei fan cantati in una canzone). Ora, l’idea è su quel confine che sta tra l’originale e il folle, ma più che altro io mi immagino il buon Wayne che telefona a Yoko Ono per chiederle una fialetta di sangue (infatti il sangue di Yoko non c’è, ma c’è quello di Sean Lennon, mica ciufole).
Una volta raccolte le fialette di sangue d’artista
i simpatici Flaming Lips&collaboratori hanno iniettato il sangue nello spazio tra le facciate dei dischi

sigillato il tutto e confezionato.
Il risultato è ‘sta roba qua, altro che l'ampolla di S. Gennaro!:

E qui sotto c’è Wayne Coyne che pubblicizza l’iniziativa:

Ah già e il disco com’è? Molto bello se vi piacciono i Flaming Lips. Sicuramente non un banale supporto in funzione dell’iniziativa descritta sopra.
Un po’ particolare rispetto ai loro canoni, dato che ogni traccia cerca almeno in minima parte di adattarsi allo stile dell’ospite. Tra l’altro, almeno lo spirito di cortesia ha fatto sì che ogni brano sia totalmente compiuto, senza intermezzi o riempitivi. Ma non pensate a eccessive deviazioni rispetto allo stile dei nostri di questi ultimi tempi: melodie sepolte sotto strati di effetti e distorsioni, digressioni nel noise e placidi approdi al minimalismo, ballate seriose e improvvise boutade, ma tutto sommato ancora abbastanza accessibile, almeno a confronto di certe cose di qualche anno fa.
I ragazzi sono sempre loro, gli anni passano e la fantasia sembra non esaurirsi mai.



[1] Personaggio piuttosto hype tra i giovanissimi. Più affine ai gusti di mio figlio che di quelli della mia era, per dire.
[2] Altri personaggi che meriterebbero un discorso tutto per loro. In breve: trattasi di un duo basso+batteria, che fa noise rock piuttosto energico, con linee di basso vertiginose e il batterista che picchia come un indemoniato nascosto da una maschera di stracci e un microfono appiccicato alla bocca, per mezzo di cui emette versi assurdi. Guardate su YouTube qualche loro esibizione per dare un senso a questa descrizione e poi ditemi se non sono degli svitati.

venerdì 20 luglio 2012

la canzone unicorno

nel 1983 avevo 15 anni e ascoltavo, prima di addormentarmi, già nel letto, raistereonotte. affascinato dal buio, affascinato dalla musica ascoltata al buio, affascinato dalla mia solitudine condivisa con la musica e con il buio. sulla scrivania accanto al letto, che fungeva un po' da comodino, stava appoggiata la radio. dentro c'era una cassetta, su cui ero solito registrare le canzoni che mi piacevano, rubandole dall'etere della trasmissione radiofonica (allora si faceva così, non c'era internet, per cui o avevi il disco che ti piaceva, oppure dovevi registrare le canzoni dalla radio). raistereonotte era una trasmissione che cominciava poco dopo mezzanotte, i dj erano davvero dei tipi di qualità, parlavano a voce bassa, non urlavano come quelli del giorno, si potevano permettere racconti più lunghi e articolati, perchè era come se tutto fosse più rarefatto, o anche solo lento, un po' come vedere il mare calmo al buio, di notte, sulla spiaggia, d'estate, quel mare che poche ore prima assisteva al concerto di un'umanità caotica e chiassosa, ed ora invece. beh, questo per dire della fascinazione che si poteva avvertire, in quel momento: una sottile sensazione di libertà assoluta, o di partecipazione ad un rito misterioso e quasi sacro. erano molte, le canzoni che registravo. quelle cassette venivano incise e sovraincise più volte, per seguire il percorso dei miei gusti. e va considerato che si trattava di cassette, con quel nastro che a volte, per il troppo utilizzo, fuoriusciva dalla sede e si accartocciava, costringendoti a complesse operazioni per rimetterlo a posto (si usava una matita, per riavvolgerlo, in una di quelle manovre che sarebbe troppo difficile spiegare ad un bambino di oggi, che al massimo deve preoccuparsi di provvedere ad un ipod scarico). una sera come tante, non mi ricordo chi fosse il dj che selezionava la musica (i dj ruotavano spesso, e anche questo era affascinante, per quella continua scoperta che costringeva, te ascoltatore, ad entrare nelle personalità e nei gusti di persone sempre diverse), ascoltai un pezzo che mi piacque molto e lo registrai. per la verità registrai solo un pezzo, di quel pezzo, perchè schiacciai il tasto rec solo dopo un buon minuto (o comunque il tempo necessario per pensare "oh beh...che bello... mi piace...ok, lo registro!", insomma per accorgermi che mi piaceva). non capii mai che titolo avesse, quel pezzo, nè di chi fosse. e non ricordo perchè lo ascoltai così poco, se perchè fu presto cancellato per far spazio a nuove canzoni o perchè la cassetta si ruppe o scomparve dalla mia attenzione. fatto sta che quella canzone non smise mai di ronzarmi in mente, benchè in modo confuso e spezzettato. nel frattempo sono trascorsi trent'anni, da allora. e il mio mestiere intanto è diventato fare il musicista. quella canzone, periodicamente, mi tornava in testa. mentre studiavo, mentre componevo, mentre canticchiavo sotto la doccia. un sacco di volte. la canticchiavo molto male, ignorando completamente il testo, in inglese, che all'epoca non avevo assolutamente afferrato, ma riproducendo in qualche modo sorprendentemente lucido la melodia e la successione degli accordi. quella canzone era diventata una specie di unicorno. a differenza dell'unicorno ero certo che esistesse, in effetti, ma ogni mio tentativo di ricerca era stato infruttuoso e davvero, davvero, ero certo che non l'avrei mai trovata. una settimana fa, anno 2012, la mia età 45 anni, mi trovavo su una spettacolare terrazza sul mare, a casa di amici. si cenava in allegria e sotto, sulla spiaggia, il paese dava vita ad una piccola sagra in cui volenterosi e poco abili dj smazzavano hit di vario genere, da quelle più recenti a quelle di ogni tempo, spaziando da ai se eu te pego ad i will survive. nel nostro distrarci vagamente ebbro ci capitò di ascoltare una canzone di cui non ricordavamo nè titolo nè interprete (non era la "mia" canzone, no no! la mia canzone era una canzone che non avevo mai mai mai incontrato in trent'anni di musica e non potevo certo pensare di incontrarla su una spiaggetta del levante ligure ad una sagra di paese). ognuno diceva la sua e quasi cominciammo a scommetterci, quando anna, mia moglie, tirò fuori l'iphone e disse "beh scopriamolo". io stavo bene, galleggiavo nel vermentino ed onestamente ammetto che in quella piccola diatriba non avevo interesse a prendere posizione. però mi colpì la sicumera con cui i miei compagni affrontarono il tentativo di dirimere la questione: davvero pensavano che un'app dell'iphone potesse sciogliere il mistero? beh, come molti meno babbani di me sanno, in effetti esiste un'applicazione per questo tipo di quesiti (almeno una, quella che hanno usato loro e che si chiama soundhound). e davvero la questione si risolse, e i miei amici ebbero la loro risposta, dopo che anna abbozzò il canto di quella melodia davanti all'aggeggio miracoloso. beh, wow, in quel frammento di lucidità che mi era rimasto mi si affacciò l'idea che forse, forse, potevo tentare anch'io di trovare la risposta all'enigma che mi aveva dolcemente attanagliato per trent'anni. non era certo in quella situazione chiassosa che avrei messo alla prova quel geniale algoritmo, però. la speranza era sorta così all'improvviso e così meravigliosamente, che non volevo bruciarmela. decisi che avrei atteso un momento più calmo e propizio, gustandomi nel frattempo l'attesa che forse una ricerca poteva davvero essere compiuta. a notte fonda, prima di andare a dormire, ormai del tutto ubriaco, presi l'iphone di anna, pacioccai grossolanamente il touch screen (io non so gestire bene un touch screen, e il mio telefono è un nokia di vecchissima generazione) fino a trovare quel magico programmino. quasi tutti erano andati a dormire, anche la spiaggia. dalla finestra aperta si sentiva solo il mare che scuro e lento si infrangeva sulla battigia. comincia ad intonare con la tracotanza dello sbronzo il fatidico "na na na" con cui cercavo di riprodurre la melodia che ero così certo di ricordare, che per tanti anni mi aveva fatto mio malgrado compagnia. cominciai insomma ad intonare il canto dell'unicorno, diciamo. mentre lo intonavo, in quei pochi secondi, ricordo di aver avvertito la netta sensazione che anche quel tentativo avrebbe fallito. tuttavia ero sereno, era una di quelle cose che si fanno gratis, senza aspettativa (è meraviglioso non avere aspettative). anna e la nostra amica claudia, le superstiti della serata, mi deridevano per l'intonazione e la scarsa lucidità, ma io andai avanti per quei pochi secondi con la tenacia del mulo. quando credetti di aver dato il meglio di me diedi lo stop alla registrazione e misi in atto la ricerca. in un attimo mi si presentò una schermata di possibili soluzioni. la terza. la terza era un titolo strano e sconosciuto. la prima e la seconda erano qualcosa tipo cristina aguilera e kate perry, o cose così, che ero certo non potessero essere. la terza. la terza era una canzone che si chiamava "what becomes of the brokenhearted" di un tal jimmy ruffin, zazzeruto nero chiaramente degli anni sessanta, perlomeno visto il giubbotto che indossava nell'immagine di presentazione. la terza. febbrile ho premuto l'icona. il tempo del caricamento e il pezzo è partito. non era lui. o meglio, non era quella, la versione che era diventata il mio principe azzurro negli ultimi trent'anni, però era lui. era lei la mia canzone. respiro. anso. amplio su youtube la mia ricerca sfruttando la conoscenza del titolo e subito trovo questo: http://www.youtube.com/watch?v=zv3mO4A6zOw è lei. dio. la ascolto per due ore, attaccato alla presa di corrente cui nel frattempo l'iphone si doveva ricaricare. l'ho trovata. ho pianto. ho riso. ero ubriaco di tutto. come se il mondo avesse improvvisamente assunto un senso nuovo, il più vivido di tutti quelli mai presi fino ad allora. avrei voluto morire durante, potrei dire, in quegli attimi di splendido egoismo. ah, la canzone è una canzone così, se la si sente a cuore freddo. non importa la canzone (a parte che a me, chiaro), è quella ricerca, che importa. è stato come rivedere dio, posto che questa affermazione abbia un senso.

sabato 19 maggio 2012

Albion live

L'Italia, abbiamo già detto, è una repubblica fondata sui cognati. In subordine sugli amici, e questo perverso familismo ha strutturato un paese traghettato dall'economia agricola al capitalismo con la stessa gretta attenzione a parenti e cugini, amici ed amici degli amici. Dovremmo quidi essere di nuovo in difficoltà a parlare di musica fatta da amici, non fosse che anche stavolta la musica è veramente buona. Loro sono gli Albion, trio capitanato dall'amico Radu ( è piemontese, non rumeno), all'anagrafe Corrado Ferri, con cui ci conosciamo da tempi così lontani che nemmeno riusciamo a datarli (potrebbe essere il liceo, l'altroieri quindi...). La  formazione è con 2 chitarre e percussioni e la proposta è una dotta rivisitazione di brani del folk-rock inglese anni 70 fatta con estremo gusto nella selezione (Radu dj-eggia con profitto e si sente), senza incanaglirsi alla ricerca della perla perduta (non c'è un'oscura b-side dei Carol of Harvest nè vengono stracciate le palle dell'ascoltatore con una suite degli Incredible String Band in fase malaticcia) e senza nemmeno cedere all'ovvia produzione pedissequa dello standard arcinoto. Insomma, la scaletta riserva piacevoli sorprese senza ingarbugliarsi in scelte cerebrali. E,  ad ulteriore merito, comprende svariati brani di loro produzione, forse poco omogenei (si spazia da Nick Drake a Country Joe and The Fish) tutti garbati e gradevoli. Insomma il concerto fila via liscio e gradevole, ed uscendo ti viene voglia di andare a riprendere l'ascolto di Strawbs, Dando Shaft e quel disco di Richard Thompson che non sentivi da anni.

venerdì 27 aprile 2012

Bud Spencer Blues Explosion - Do It

Ci ho girato intorno per un po' a questo disco.
Troppo hype, troppa esposizione, l'onda della scena romana alla ribalta. Un po' come se il loro troppo successo innescasse quel meccanismo di diffidenza che mi tiene lontano dai Grandi Nomi Della Musica Mondiale (con qualche eccezione).
Poi uno mette un po' a fuoco la situazione, aggiusta prospettive e proporzioni e prova a fare un sondaggio. Chiedo ad alta voce, in ufficio "L'avete sentito l'ultimo dei Bud Spencer Blues Explosion?". I colleghi mi guardano come se fossi matto. Non un fioco barlume di comprensione brilla nei loro occhi attoniti. "Bah, tornate ad ascoltare Raf, va".
Dico Raf non a caso, perché il chitarrista dei BSBE ha lavorato anche con lui.
Raf, dopo lo sbuffo degli indie-oltranzisti, significa che il ragazzo sa il fatto suo, in quanto mestiere, e nel disco si sente.
L'altro BSBE è il batterista, e poi è finita. Cioè i BSBE sono un duo, chitarra (in ogni sua accezione), voce e batteria. Sono romani, se può interessare.
Come intuibile dal nome, il punto di partenza della loro musica è il blues, con sonorità che si spingono fino alle origini, al delta del Mississippi, Robert Johnson. Ma sono accenni, citazioni. Si divaga anche e soprattutto verso il rock, hard-rock che seppellisce quasi tutto, ma quelle venature nere gli conferiscono una sonorità decisamente inusuale dalle nostre parti. Il piglio è energico, la tecnica indiscutibile. Il risultato è trascinante e coinvolgente. Bum, qualcosa di cui andar fieri nel solitamente-desolato-panorama-della-musica-italiana.
Ma andiamo con ordine.
Si attacca con Slide, breve introduzione quasi inesistente, 16 secondi di ovattato fruscio da cui emerge a stento il suono di una chitarra slide, appunto. Lanciata dall'introduzione, esplode Più del minimo, un pezzo hard-rock piuttosto teso con evidenti riverberi Led Zeppelin. L'hard-rock è protagonista anche nella successiva Giocattoli, in Rottami (che per me è l'unico pezzo prescindibile) e in L'onda, uno dei due pezzi migliori dell'album.
Cerco il tuo soffio è introdotta e poi sostenuta da un bel gioco di Hammond e ne risulta un bel pezzo trascinante. Segue poi un'accoppiata antico/moderno nella quale prima si reinterpreta un classico del bues (Jesus on the mainline) a dire il vero in modo più filologico che creativo e poi una sKratch eXplosion in cui si ibridano blues e suoni hip-hop il cui solo difetto è la breve durata. Forse il tentativo avrebbe meritato più coraggio.
Dio Odia I Tristi (il cui acronimo costituisce il titolo dell'album) è per me il punto più alto dell'album. Un blues-rock indolente molto molto gradevole. Come un mare sarebbe invece un altro episodio prescindibile se non venisse ampiamente rivalutato dalla lunga coda finale che lascia libero sfogo alla chitarra di Viterbini.
Squarciagola ha venature più pop e infine l'album viene chiuso da una nuova versione di Hamburger , un pezzo già edito due dischi fa, e da Mi Addormenterò, perfetto blues in 12 battute, indolente, sporco e fumoso, come da tradizione.

C'è del buono in Italia, per fortuna. Anche di questi tempi.

lunedì 23 aprile 2012

Il jazz che non ti ignora - Fabrizio Bosso e Luciano Biondini live

"Se la maggior parte delle persone ignorano la maggior parte della poesia è perchè la maggior parte della poesia ignora la maggior parte delle persone
Così scrive Adrian Mitchell, poeta inglese, non propriamente ortodosso. Prendo la citazione e la giro sul jazz, genere che ignoro abbastanza e la mia ignoranza del quale ho spesso patito.  Finchè, mitchellianamente, ho colto che è il jazz ad ignorare il sottoscritto, e quelli come lui. Per chi non ha orecchio musicale coltivato, e necessita melodie semplici e tempi chiari e netti, il jazz è ostico di natura. L'aura di musica elitaria, da salotto colto (anche se nasce notoriamente nelle bettole di New Orleans), non aiuta l'approccio dei meno sapienti e contribuisce a tenere lontano l'ascoltatore occasionale ed un po' barbaro. Guardo i dischi della mia collezione cui qualcuno potebbe attaccare un tag "jazz": Susanne Abbuehl, Klezmatics, Jazz Butcher Conspiracy (ovvio), Rita Marcotulli, Giovanni Mirabassi, i vari canterburyani, alcuni della Egea, Penguin Cafè Orchestra. E, per vero dire, tanto jazz non sono. Ci sono anche, per obbligo di acquisto, Herbie Hancock e Miles Davis, ma raramente raggiungono il piatto del lettore CD. Why? perchè io ho bisogno di linee melodiche chiare, di tempi netti, di energia e non solo di virtuosismo. Perchè sono ignorante abbastanza da necessitare l'ascolto periodico di Cool for cats o Israel (Squeeze e Siouxsie, rispettivamente). Quando mio cognato, come già detto esperto della materia, mi ha regalato i biglietti per Bosso&Biondini nutrivo quindi legittimamente alcune tenui preoccupazoni, anche se sottilmente intrigato dalla peculiare formazione fisarmonica-tromba. Ad eterno merito di Bosso&Biondini (e di Matteo, diamine!) sono uscito entusiasta. Per quanto indubbiamente virtuosi, Bosso e Biondini hanno mostrato una vitalità, una carica, un volume inattesi, mescolando standard jazz con composizioni originali, in lunghe suites dal sapore vagamente mediterraneo, intense e ritmate. Ma soprattutto eseguite con un energia come se Bosso suonasse nei Memphis Horns e Biondini venisse dai Pogues. Hanno finito il concerto marci di sudore, e questo per me è una palma di onore. Non ho album da consigliarvi, il loro primo è ancora in attesa di distribuzione, ma sul solito iutùb potete trovare questo ed altri video. Da non perdere.

venerdì 13 aprile 2012

Lewis Floyd Henry - One Man & his 30w Prawn


Il signor Lewis Floyd Henry (di seguito LFH) è un artista di strada, uno di quelli che incontri nelle metropoli più turistiche -in questo caso  Londra-, piazzati per strada o nelle fermate della metro a suonare per il piacere dei passanti e soprattutto per raggranellare qualche spicciolo. LFH è il classico one-man-band, chitarra, armonica appesa al collo, batteria comandata col piede, amplificatore a batteria e altri ammennicoli. Trasporta tutto con un passeggino adattato, si piazza in un angolo e inizia a suonare.
Succede poi che sia molto bravo, e che un produttore discografico (piccolo piccolo, eh) se ne innamori e gli faccia fare un disco. Questo qua.
Questo produttore poi deve essere uno che sa gestire il proprio patrimonio artistico se i dischi di LFH, invece che rimanere nella custodia aperta in cui i passanti lasciano le monete, sono arrivati in negozi lontani qualche migliaio di km e sono stati recensiti in paesi ben lontani dal suo, regalando al signor LFH una fama non certo stratosferica, ma comunque ben superiore a quella tipica degli artisti di strada come lui.
Va poi detto che il tizio in questione è uno che pur non scendendo a troppi compromessi, è piuttosto ambizioso e rincorre il successo con una certa determinazione. Non scende a compromessi quando decide di eseguire per strada solo musica sua e non cover di pezzi celebri, ben più facili ed appetibili ai passanti. Non scende a compromessi quando decide di fare tutto da solo. In un'intervista ha detto che inizialmente l'idea di suonare con altri, una piccola band, gli pareva più "a effetto", più attraente per il pubblico distratto della strada. Poi si è reso conto che da solo riusciva a gestire meglio tutto quel che gli veniva in mente di fare. Così si è dovuto solo studiare gli accorgimenti per suonare tutta quella roba insieme e via: one-man-band. Non scende a compromessi quando nonostante  l'aspetto dilettantesco dell'essere un artista di strada, registra ogni esibizione, per riascoltarla e perfezionare ciò che non va ancora.

Il genere è un rock-blues sporco e tagliente. La voce ricorda un po' quella del Mick Jagger alle origini e certe sonorità sembrano arrivare proprio da Aftermath o Beggars Banquet, ma si avvertono pure sentori di Captain Beefheart, Hendrix, blues del delta, qualche deriva hard-rock. In un pezzo io ci ho pure ritrovato gli Animal Collective, in un certo modo di cantare. Con la voce dà spettacolo: passa da registro basso a falsetto con nonchalance spettacolare dentro le singole strofe. La ritmica, pur essendo per forza di cose piuttosto semplice, si lega molto bene al groove complessivo, e gli arrangiamenti sono sorprendentemente sofisticati.

È una concessione che faccio raramente, ma questa volta ammetto che si tratta di un disco che va ascoltato un po' di volte per essere apprezzato. Soprattutto per il fatto che i primi ascolti si concentrano sul "cosa riesce a fare questo tizio tutto da solo", perché la registrazione è fatta in presa diretta, come fosse per strada (a parte qualche marginale sovraincisione). Superata la fase di stupore ci si concentra sulla qualità e originalità del lavoro e si ha finalmente modo di apprezzarlo appieno.
A me gli artisti di strada in genere piacciono molto, ma sapendo che tra loro si nascondono personaggi di questa caratura, d'ora in poi li ascolterò con ancora maggiore attenzione.