mercoledì 2 febbraio 2011

Anna Calvi - s/t

Credo che sia una questione di sovrabbondanza e anche un po’ di preventiva diffidenza, ma io nella musica più recente, faccio fatica ad avvertire il pulsare del cuore. Intendiamoci, non sono assolutamente uno di quelli che “ah, dopo il 1979 in campo musicale si è prodotta solo merda, il rock è morto e sepolto da allora”, anzi, adoro il presente e cerco per quanto possibile di tenermi un po’ aggiornato.
Però quando ascolto un disco recente, soprattutto le prime volte, è molto raro che riesca a riconoscergli un’anima lampante, un segno tangibile che quelle note e quei suoni sono stati prodotti con il cuore e non solo con la testa (cosa di per sé tutt’altro che disprezzabile, almeno in confronto alla terza alternativa: il portafogli).
Credo che 50 anni di rock abbiano ormai esplorato talmente tante direzioni da porre chi fa musica di fronte ad un dilemma ormai imprescindibile: o far tesoro delle creazioni altrui, e così diventare derivativo, scopiazzatore, già sentito eccetera, o cercare ulteriori nuove strade con il rischio di apparire autore di originalità fine a se stessa.
Così troppe volte ascoltando un disco recente mi ritrovo ad oscillare tra questi due poli senza riuscire ad appassionarmi (nel senso etimologico del termine) veramente e riponendolo poi dopo l’ascolto costretto a ripromettermi di tornarci su per un ascolto più sedimentato.
A volte però no. Il disco mi colpisce immediatamente, si lascia amare da subito, senza tentennamenti.
E questo è il caso di questo esordio omonimo dell’inglese Anna Calvi.
10 tracce di musica sanguinante, altro che col cuore.
Sarà che suona la chitarra in maniera egregia, lasciandole addosso quella patina sporca e cattiva che solo dalle chitarre nude e senza troppi effetti leccati si riesce a tirare fuori.
Sarà che il suo modo di cantare, profondo e caldo, è coinvolgente come pochi, e che evoca solo riferimenti illustri (PJ Harvey e Siouxsie su tutti).
Sarà che i brani non hanno paura di debordare nei meandri cupi ma fertili di un certo rock funereo (Nick Cave & The Bad Seeds dei primordi, Scott Walker,…)
Sarà dunque che la ragazza del rischio di essere accusata di derivativismo (si dice così l’essere derivativi?) se ne fotte bellamente, e che usa il già sentito come sponda a cui appoggiarsi prima di balzare da sola.
Sarà, sarà, sarà… ma questo disco è bellissimo e se anche ne sentite parlare un po’ troppo in giro, come capita con quei troppe volte effimeri prodotti che tanto puzzano di hype, per una volta scrollatevi di dosso quell’aria diffidente, e dategli una bella chance.
Per me questo è uno di quei dischi che durano.

1 commento:

  1. comprato ieri, con colpevole ritardo. non posso che sottoscrivere tutto...

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