martedì 8 gennaio 2013

Fiona Apple - The Idler Wheel...

[Il vero titolo dell'album è The Idler Wheel Is Wiser Than the Driver of the Screw and Whipping Cords Will Serve You More Than Ropes Will Ever Do, ma non è il suo record di lunghezza, il secondo album è ancora peggio]


La questione sull’origine tormentata di certa creatività è tanto oziosa quanto trita, ma sorge praticamente spontanea di fronte a lavori come questo.
Fiona Apple ha avuto l’infanzia marchiata da un trauma (stupro, 12 anni) che ricorre pressoché costantemente in ogni intervista (vuoi anche per la morbosità dell’intervistatore, ovviamente), in ogni analisi dei suoi testi, in ogni didascalia, pure nella descrizione del suo corpo mortificato da anoressia, autolesionismo o alcolismo.
E allora cinicamente, di fronte ad un lavoro come questo –che è a mio avviso un capolavoro, ne parlerò dopo– ci si chiede se l’Artista avrebbe prodotto tanta meraviglia se il suo animo avesse seguito un percorso meno travagliato, più sereno. Potrebbe essere che sì, che l’Arte talvolta si generi come sfogo di un travaglio interiore, come se questo fosse un seme da curare e fertilizzare, ma senza di cui nulla potrebbe nascere.
Oppure può essere che in questi casi l’Arte nasca nonostante il trauma, che quelle manifestazioni di questo tipo siano solo quelle che l’artista è riuscito a metabolizzare, e che se questo non si fosse verificato sarebbe stato ancora meglio, una produzione spensierata e leggera, come fortunatamente spesso succede, ma comunque di livello alto, perché il talento è talento, non si crea dal nulla a causa di un trauma, anzi: ringraziamo se riesce a sopravvivergli.
Personalmente mi pongo democristianamente nel mezzo (dove stanno la virtù e chi non si vuole sbilanciare): il travaglio, l’incidente, non creano un bel niente, semmai distruggono. Però se sedimentano nel terreno giusto (oddio, come faccio a parlare di terreno giusto quando l’accidente in questione è lo stupro di una bambina???), possono produrre fiori straordinari, anche se il prezzo in casi come questi è decisamente troppo alto. Già perché certo talento artistico si nutre di sensibilità e questa, per definizione, duole di più quando ferita, per cui è forse vero che l’artista crea capolavori dal proprio dolore, ma è anche vero che lui ne soffre di più di tutti, di questi dolori.

Detto questo, parliamo del disco. Dalle premesse ci si potrebbe fare l’idea di un lavoro cupo e angosciato, mentre invece le singole canzoni sono tutto sommato sempre piuttosto brillanti. Parlo non a caso di canzoni, dato che la voce è l’elemento portante di ogni brano e l’arrangiamento è decisamente essenziale. Rimica e accenni melodici, pianoforte soprattutto e molto ritmico anch’esso, ma anche qualche cenno di contrabbasso o di un elenco sfrenato di strumenti e strumentini, che però non fanno mai sentire eccessivamente il loro peso, tanto che alla fine sembrano stare sempre sullo sfondo. La voce la fa da padrona, dicevo, e che voce. Ricca, piena, potente e calda quanto basta a lasciarsi strapazzare, a colorare gli scarni arrangiamenti e a guidare la melodia in direzioni ogni volta sorprendenti e raramente banali. Tutto sommato i pochi casi in cui il motivo si fa più usuale regalano qualche momento di distensione che non guasta, se preso a piccole dosi come in questo caso.
Il lato cupo del lavoro emerge comunque prepotente nei testi che rivelano insicurezze (While you were watching someone else / I stared at you and cut myself), chiusura (How can I ask anyone to love me/
When all I do is beg to be left/Alone), pessimismo (But we can still support each other/All we gotta do's avoid each other/Nothing wrong when a song ends in a minor key), autocommiserazione (Oh, I ran out of white doves' feathers/To soak up the hot piss that comes from your mouth/Every time you address me).
Sono lavori come questi che ogni tanto risvegliano in me un certo spleen adolescenziale, quando riflessioni su una visione pessimistica delle cose erano capaci di procurare la giusta dose di affascinante struggimento. Poi si cresce e certe riflessioni devono necessariamente cessare di essere gratuite o troppo palesemente furbe, perché di magagne ormai abbiamo già le nostre e se ci concediamo di dare retta a quelle degli altri, queste devono essere decentemente impacchettate e profondamente strutturate, devono in altre parole solleticare, oltre alla nostra compassione, pure la nostra vanità di intenditori di cose musicali.
Altrimenti tanto vale fare gli imbecilli con Gangam Style

1 commento:

  1. Grazie Luca per la segnalazione. Inevitabilmente, per nulla spaventato dalla lunghezza del titolo (semplificabile in "when the pawn..")sono andato a riprendermi l'album precedente che, confesso, avevo sottovalutato. Pop denso e meditabondo, però sempre gradito al palato. M.

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