Per conto mio, per un musicista che è stato “grande”, esistono fondamentalmente due modi per invecchiare, uno cattivo e uno buono.
Il primo, che è, ahimè, il più seguito è quello dell’inseguimento del successo a tutti i costi, misurato in termini esclusivamente quantitativi (leggi: soldi) a scapito di qualsiasi velleità qualitativa. La star vuole continuare ad essere una star, e per fare questo deve vendere miliardi di copie dei suoi cd, deve riempire stadi con miliardi di persone che paghino biglietti dai prezzi esorbitanti per mantenere in piedi carrozzoni colossali dai costi colossali. E per fare questo si devono fare campagne promozionali martellanti, manifesti giganteschi, comparsate in TV, presenza nei tigì, poster, dvd, heavy rotation in radio, riviste, interviste, scandali sessuali, paparazzi, gossip, matrimoni, risse e ubriachezze. E dato che tutto questo costa a sua volta tantissimo, non c’è scampo: le vendite di tutto ciò che si può vendere (non solo i CD, quindi) devono raggiungere dei volumi mastodontici, altrimenti il bilancio va in rosso e tutti a casa (e quei “tutti” sono una quantità a sua volta spaventosa di persone).
In tutta questa sarabanda sembra che la musica diventi un dettaglio quasi insignificante e in effetti è così, ma solo quasi, non del tutto. La musica va sullo sfondo, in sottofondo come quella nei supermercati, deve essere sempre non-disturbante sia nel senso basso (non deve cioè fare troppo schifo) che nel senso alto, cioè non deve rischiare di diventare una questione troppo complicata da disorientare quella massa di pubblico ai cui portafogli si sta mirando. In questa zona di equilibrio tra i due estremi la star si crogiola dunque beatamente, più attenta al look e all’immagine in generale che alla musica che produce.
Chi come noi (plurale non tanto maiestatis quanto comprendente i frequentatori a vario titolo di questo blog) tende ad impipparsene dell’immagine, al punto da non sapere bene neanche che faccia abbiano alcuni dei propri artisti preferiti, si ritrova quindi ad avere in mano, o anche solo nelle orecchie, della musica concepita più come contorno che come piatto principale.
E smadonna.
Perché, oltre a essere musica di lega veramente bassa, ricordo che sto parlando di musicisti che un tempo furono “grandi” e su di cui le aspettative continuano a rimanere tutt’ora legittimamente alte.
E non si pensi che il discorso valga solo per quei gruppi in grado da fondare dei veri imperi mediatici (via, facciamo un esempio: U2), ma pure per tutti quelli che ne hanno l’atteggiamento e che a quei livelli non ci arrivano solo perché non ci riescono, mica perché non vogliano, ma che comunque continuano a galleggiare su melodie commercialotte per sbarcare il lunario di una quanto più possibile agiata senescenza (un altro esempio: Pinodaniele).
Esiste poi il secondo modo di invecchiare, quello buono.
In questi casi l’Artista, che ha capitalizzato una fortuna sulla propria arte, si ritrova con l’invidiabile possibilità di poter reggere da solo la barra del timone, o, più prosaicamente, a poter fare il cavolo che gli pare. E lo fa.
Ma lo fa da artista, da uno che dimostra di amare quello che ha sempre fatto, che ci crede, che pensa che dal frutto della musica si possa spremere ancora qualcosa di prezioso, di raro. E si impegna per farlo, trova piacevole o almeno interessante dedicarsi anima e corpo a inventarlo, a creare. Con buona pace del pubblico, se non gradisce. E delle case discografiche e dei negozi e delle riviste e di MTV.
S’intenda: non sono così ingenuo da pensare che a questi signori il successo non interessi, ci mancherebbe. Però sentendo certe cose viene proprio da pensarlo, anche se forse sotto sotto c’è un comunque un’ambizione di successo, solo che è giocata su tempi un po’ più lunghi, più piccola in termini immediati, ma più duratura. La gloria eterna, insomma. Come quell’album là della banana, venduto inizialmente a poche centinaia di persone, ma ancora considerato dopo quarant’anni un capolavoro assoluto.
Questi personaggi sono rari, ma per fortuna ci sono. E oggi mi rendo conto che questa categoria ha a sua volta due sfumature.
(Il discorso sta diventando macchinoso, lo so, ma sono quasi arrivato al punto)
Semplificando, la prima sfumatura è quella dell’Artista che decide di sperimentare, di battere nuovi sentieri. Le cose diventano ostiche, difficili da digerire, quasi incomprensibili, ma non importa, lui prova a indicare una direzione diversa, poi se porterà da qualche parte, bene, altrimenti chissenefotte. Un esempio: David Sylvian. Provate ad ascoltare i suoi ultimi lavori.
L’altra sfumatura è quella in cui l’Artista decide di divertirsi, di giocare con la propria abilità e competenza e fare di getto ciò che più gli piace, anche in questo caso fottendosene non solo di tutto il carrozzone commerciale di cui sopra, ma pure della critica più cerebrale, quella che si sdilinquisce per l’altra sfumatura (quella sperimentale) che gli permette di compiacersi di ascoltare roba indigeribile a chiunque.
Questi qua possono per esempio imbracciare una chitarra e mettersi a urlare in un microfono come facevano nel garage prima di diventare le star che sono diventati. E piegarsi dalle risate al termine di un pezzo, euforici per essere riusciti a esprimere un’energia che pensavano di avere esaurito. E dato che sono musicisti coi fiocchi, il risultato di questi sfoghi può essere davvero buono, ottimo. In questo caso l’esempio è proprio quello in questione: Nick Cave.
Per quanto mi riguarda Nick Cave è un Grandissimo (superlativo e maiuscola intenzionali), c’è tutta una discografia a testimoniarlo, con tanti alti e pochi bassi, ma sempre a un livello impensabile per quasi chiunque. Ultimamente (dal 2006) ha dato vita al progetto Grinderman che di fatto è una costola dei Bad Seeds (i tre elementi oltre a Cave fanno parte dei BS, tanto da essere soprannominati i mini-Seeds), con cui Cave riprende certe sonorità vicine ai suoi esordi con i Birthday Party, cioè in poche parole, roba sporca e cattiva. Un rock molto in linea con l’idea di sangue+sudore.
Questa linea è stata seguita soprattutto nel primo lavoro, l’omonimo Grinderman. In questo album, semplicemente Grinderman 2, i toni si sono appena appena mitigati, ma l’approccio impulsivo rimane fondamentalmente lo stesso.
Pezzi molto duri (Evil), altalene emotive tra quiete e tempesta (Mickey Mouse And The Goodbye Man), tenui ballate degne di Springsteen epoca Nebraska (What I Know), qualche concessione più morbida (Places of Montezuma), slanci corali ed elettrici (Bellringer Blues) sono alcuni degli ingredienti che compongono questo gustoso piatto, tutti accompagnati dalla voce magicamente espressiva di Cave che in questa formazione suona anche la chitarra.
In poche parole, quando la classe c’è, ed è tanta, basta lasciarla libera di sfogarsi. I risultati non possono che essere magnifici.
Lunga vita.
Io l'ho visto giocare.
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