I Talk-Talk sono uno dei pochi gruppi la cui carriera discografica è andata migliorando con il passare del tempo e forse sono l’unico caso di un cambiamento tanto repentino e radicale da aver lasciato tutti a bocca aperta ai tempi e ancora oggi talmente raro da lasciare increduli.
Agli albori degli anni ’80 i nostri si conquistarono un certo successo commerciale con brani quali It’s my life o Such a shame, canzoni di pura natura pop che si contendevano le classifiche con i campioni dell’epoca. Erano i tempi dei primi video musicali, nasceva VideoMusic, dopo pranzo ci sciroppavamo la programmazione di DeeJay Television (con Linus e Albertino ragazzini!) che mandavano in onda gente come Duran Duran, Spandau Ballet, Pet Shop Boys, Level42, Howard Jones, Paul Young e appunto i Talk-Talk. Puro pop commerciale, e se gli anni ’80 sono stati l’apoteosi di quel genere effimero e artefatto, i Talk-Talk ne costituirono giocoforza una delle massime espressioni di sempre.
Era ancora l’epoca dell’equazione successo=un sacco di soldi per sé e per la casa discografica e quest’ultima, dopo un paio di LP di sempre crescente consenso, concesse fiducia e diede carta bianca ai quattro ragazzotti londinesi: fate quel che volete, per il prossimo disco prendete quel che vi pare. Paghiamo noi.
E mal gliene colse.
I Talk-Talk si chiusero in un casolare in campagna e iniziarono a comporre e a suonare liberi da ogni pressione e condizionamento di produzione. Si dice che suonassero in una stanza illuminata solo da lumi di candela per raggiungere il massimo dell’ispirazione e concentrazione.
Quello che consegnarono fu un lavoro tenue e sofisticato che lasciò sbigottiti discografici e grande pubblico, segnandone inevitabilmente il crollo delle vendite.
6 brani bellissimi, che partono da movimenti minimi degli strumenti, tutto sussurrato e appena sfiorato, salvo essere di preludio per occasionali e intense esplosioni pronte a rientrare nella quiete dopo poco. Via gli strumenti elettronici (synth e drum-machine, i caratteri distintivi della musica del tempo), via i ritmi dance, via le melodie appiccicose e avanti con elegantissime e suggestive linee appena abbozzate e scarne, appena sufficienti a sostenere l’armonia, pochi tocchi di chitarra, qualche accordo di pianoforte, la batteria solo quando serve ed un cantato gentile e non invadente.
Una delle frasi celebri di Mark Hollis (il leader) pare che fu: “Prima di suonare due note, impara come suonarne una sola. E non suonare una nota finché non hai una ragione per farlo”. E in effetti siamo lontanissimi sia da virtuosismi prog che da qualsiasi baldoria dance.
Non pensate però a musica minimale o triste. Si tratta invece di composizioni seducenti e distese, con momenti di sospensione e cadenze risolutive, tutto ampiamente sostenuto da un magistrale buon gusto.
I nostri fecero poi ancora un altro album Laughing Stock, bellissimo anch’esso, con un’altra etichetta (Verve-Polydor, la EMI li scaricò dopo il flop commerciale di Spirit of Eden) e poi scomparvero come gruppo.
Col senno di poi (ma così è troppo facile) si può anche andare a scovare nei singoli di inizio carriera una certa inquietudine, un certo barlume di acuta originalità che li poneva un passettino più avanti ai loro antagonisti commerciali del tempo. È troppo facile in effetti, ma si può fare, provate.
Questo è un altro consiglio per gli acquisti. Per conto mio, al di là della storia ranocchio-principe, si tratta di un disco bellissimo, godibile e ancora totalmente fruibile dopo più di vent’anni dalla sua pubblicazione, uno di quelli che, in spirito con l’idea di questa rubrica, è assolutamente regalabile. Magari e soprattutto a chi di quei tempi ha ricordo dei Talk-Talk come una delle tante plastic-band dell’epoca.
Io l'ho visto giocare.
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