giovedì 7 gennaio 2010

MdD(luca): fuori tempo massimo #1

Mi succede sempre così: quand’è ora di compilare i listoni (in genere quelli di fine anno) con The Best of…, vado pure a sbirciare gli elenchi altrui (siti, webzines, blog, newsgroup, riviste… e ultime solo in ordine di tempo, le segnalazioni degli altri autori qui dentro) e mi capita di fare ulteriori fondamentali scoperte.
Il fatto è che naturalmente non ho modo né tempo di stare dietro a tutto quello che esce in un anno e queste liste le trovo preziosissime per scovare delle autentiche chicche che mi erano sfuggite nelle innumerevoli segnalazioni che arrivano dalle stesse fonti durante l’anno.
Per cui mi ritrovo, dopo avere compilato la mia classifica, a scoprire album che in questa lista ci sarebbero entrati di pieno diritto. E quindi o ribalto la classifica o lascio perdere. In genere lascio perdere (e infatti ho poi smesso di farle), ma almeno mi godo le nuove chicche.
Chiaro che con il listone del Meglio del Decennio le cose si amplificano ulteriormente, essendo molti di più gli ascolti definiti imprescindibili che invece mi sono perso.
In questo caso però devo fare una considerazione un po’ diversa: se il MdD è ciò che io considero significativo per me in 10 anni, per quanto belli siano i dischi che d’ora scoprirò, non potranno mai entrare di diritto lì dentro, non essendo ascolti che mi hanno deliziato tra il 2000 e il 2009.
Una menzione particolare però se la meritano, e con questo post voglio iniziare almeno a citarli.
Via:
The Microphones – The Glow pt.2
Folk-rock strambo, deviato, sghembo e folle. Per il sottoscritto seducente e affascinante come pochi altri. Già solo il fatto che questo pt.2 non sia il seguito di un bel niente...
Melodie intriganti galleggiano su strutture scomposte e rumorose, una sorta di Neutral Milk Hotel, ma ancora più anomalo, poi in altri momenti, tutto viene sussurrato, ma sempre in un modo strano, come se si avesse paura di farlo troppo pulito, poi il rumore esplode ed è shoegaze, ma anche in questo caso lo si sporca (si può sporcare un genere distorto come lo shoegaze? Si può, fidatevi), poi si mette un pulsare fuori tempo sotto la melodia, ma non da fastidio, è strambo, ma ci sta. E così via.
In casi come questi, mi raffiguro l’immagine dell’artista che agguanta il giocattolo (in questo caso quello del folk-rock) e inizia a prenderlo a mazzate, contorcendone l’aspetto, deformandolo e scassandolo, ma lasciandolo ancora per poco riconoscibile, tra momenti intimi e delicati e esplosioni di energia sporca e distorta (il padre di questo ‘metodo’ fu il grandissimo Capt. Beefheart, e mi si perdoni l’accostamento).
Ecco, questo è quello che ha fatto Phil Elvrum nelle 20 canzoni per un’ora abbondante di musica di questo album bellissimo.

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