Un altro dei termini ricorrenti quando si parla di musica è “bollito”.
È l’epiteto che si guadagnano i musicisti o i gruppi che, dopo avere raggiunto un significativo successo, si adagiano mollemente sugli allori e continuano a produrre album seriali che, ben lungi dal proseguire un qualche percorso di ricerca che li aveva resi quantomeno originali agli esordi, non fanno altro che cercare di consolidare il successo (leggi: le entrate finanziarie) della star.
Ascolti uno di quei dischi e lo senti lontano un miglio, è roba bollita, con la consistenza flaccida di un cotechino e l’appeal gustativo di un finocchio. Ci sarebbero tanti motivi che giustificano questi dischi, l’età che avanza, la pigrizia dell’arrivato, gli obblighi contrattuali che non rispettano i tempi di gestazione artistica e così via.
Ai Chemical Brothers era già successo: alfieri della musica elettronica e esponenti massimi di quel big-beat che caratterizzò gli anni ’90, ultimamente si erano ridotti a pubblicare dischi insulsi e ripetitivi che cercavano di replicare le formulette vincenti dei primi album senza nemmeno sfiorarne la bellezza innovativa.
Per quanto detto sopra, non era stupefacente tutto sommato: i due ragazzotti agli inizi erano riusciti ad impressionare il mondo con quattro macchine di recupero grazie al loro entusiasmo e ad un’ottima preparazione tecnico-musicale. Poi, diventati una discreta macchina da soldi per la Virgin, si sono trovati a disporre di attrezzature che neanche alla NASA e si sa, spesso il troppo stroppia, e i due ragazzotti ormai cresciuti hanno ceduto alla tentazione, diventata troppo facile da seguire con quel popò di armamentario, di produrre il minimo indispensabile con il minimo sforzo. E si sente: bolliti. Basta la parola.
Con queste premesse l’approccio al nuovo album non poteva essere peggio prevenuto. Se mi avessero proposto di scommettere, ci sarei andato liscio quanto su una magra figura dell’Italia nel girone iniziale del mondiale di calcio: sicuramente una ciofeca.
E invece.
E invece lo sto ascoltando a ripetizione e mi pare sempre più bello e intenso. Niente nostalgie per il passato, niente derive commerciali. Un disco onestissimo e molto ben prodotto, con una giusta dose di umiltà da un lato che ci mette al riparo da spocchiose cadute di stile nascoste dietro un “io sono l’Artista e faccio come mi pare” ma con pure una sicurezza dei propri mezzi che evita le strade smaccatamente più semplici.
Per dire, il primo colpo di batteria (o quel che è) arriva dopo oltre 7 minuti, al minuto 2 del secondo brano. E per gli alfieri del big-beat non è affatto poco, soprattutto pensando come si comprano i dischi: ascolto frettoloso alle cuffie del centro commerciale. Se ti piglia subito bene, altrimenti passi all’altro album.
Tutto il disco è davvero ad alto livello (non altissimo eh, ma tant’è), ma gli episodi migliori a mio avviso sono l’iniziale Snow, senza batteria appunto, sorretta da una voce femminile (anonima, stavolta non ci sono neanche le solite grandi ospitate) che ripete le stesse 2 frasi e tutto un gioco di fruscii, sibili e qualche nota a reggere la struttura.
La successiva Escape Velocity è poi un’epopea di quasi 12 minuti con un inarrestabile saliscendi emotivo tra momenti di pura house, frenesie ritmiche e momenti di inaspettata quiete.
Poi Horse Power, qui sì, un vero trionfo big-beat, da sparare a tutto volume, con quella voce in vocoder che ne ripete il titolo ossessivamente (richiamo alla ketamina, farmaco anche veterinario allegramente abusato dai clubbers) e nitriti di cavallo che emergono tra riff ossessivi e ritmi violentissimi.
Insomma, la notizia è buona: oltre ad avere scovato un buon disco da pompare sul fidato stereo (va ascoltato ad alto volume, se no non ne vale la pena) la conferma che non sempre l’età porta obbligatoriamente allo sfacelo: con un po’ di buona volontà si possono fare ancora grandi cose.
Io l'ho visto giocare.
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5 settimane fa
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